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La Storia

La saga della flotilla

Bruna Soravia

La prima puntata nel 2010 (con finale tragico), la seconda nel 2011 (con fallimento) e ora la terza, con la Samud, sanciscono la vittoria dell’asse Turchia-Hamas-Bds. Storia di una campagna di disinformazione

Nel 2010 la diffusione dei social network non era ancora capillare come oggi e la reazione dell’opinione pubblica non così immediata, e comunque quindici anni sono un tempo lunghissimo nella memoria collettiva. E’ allora probabile che non siano molti a ricordare come finì la prima puntata (preceduta da qualche pilot, diciamo, il più fortunato dei quali nel 2008) della serie Freedom Flotilla, spin-off della saga circolare e infinita del conflitto israelo-palestinese, avvenuta nelle acque internazionali al largo di Gaza il 31 maggio 2010. Sei navi che portavano diverse centinaia di attivisti da 37 nazioni – fra di loro, immancabile una Nobel per la Pace, l’irlandese Mairead Maguire – con l’intenzione di “rompere l’assedio di Gaza” e “portare aiuti umanitari” furono bloccate e sequestrate dalla Marina militare israeliana, dopo un’incursione all’alba che incontrò una forte resistenza e si concluse con decine di feriti lievi da entrambe le parti e 9 vittime fra gli attivisti. L’eco dell’iniziativa fu molto ampia (le foto delle folle che issano bandiere palestinesi in Svezia o in Canada o a Milano potrebbero essere state prese oggi a un qualsiasi evento propal), e lo fu ancora di più, ovviamente, la reazione al raid israeliano.

 

Il presidente americano Barack Obama rifiutò la richiesta di Benjamin Netanyahu di porre il veto alla condanna di Israele da parte delle Nazioni Unite (presiedute all’epoca da Ban Ki Moon), ma permise una commissione d’inchiesta, presieduta dal presidente neozelandese Geoffrey Palmer. Il rapporto finale stabilì che il blocco navale israeliano era legale, poiché “Israele si trova di fronte a una minaccia concreta alla sua sicurezza da parte di gruppi militanti a Gaza” (ah, le Nazioni Unite di una volta!) e che “sebbene tutti abbiano il diritto di esprimere le loro opinioni politiche, la Flotilla ha agito in modo sconsiderato nel tentativo di sfondare il blocco navale”. Tuttavia, criticava l’uso della forza eccessivo e irragionevole da parte delle truppe israeliane e rimproverava la Turchia per non aver impedito l’allestimento della flotta (tornerò fra poco sul ruolo della Turchia). Anche il Tribunale penale internazionale aprì un’inchiesta sull’accaduto, che si concluse con un nulla di fatto, perché “l’incidente” non era stato abbastanza grave da richiedere l’attenzione del tribunale. La Spagna, invece, decise in autonomia d’incriminare non solo Netanyahu ma anche Ehud Barak e vari altri capi militari ed esponenti politici israeliani (il procedimento, che sarebbe scattato se avessero messo piede in Spagna, fu chiuso nel 2015).

 

 

Nel mondo, le reazioni di condanna per Israele furono quasi unanimi. Alcuni paesi declassarono le relazioni diplomatiche con Israele, molti stati latino-americani emisero dure condanne formali, seguiti da diversi stati europei, fra cui l’Italia. Abu Mazen, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), parlò di “massacro”; il presidente egiziano Hosni Mubarak, alla vigilia della sua defenestrazione, permise l’apertura del valico di Rafah su richiesta di Khaled Meshal, il capo di Hamas che vive in Qatar e che potrebbe essere stato colpito nel raid israeliano di ieri contro Doha, e anche Israele allentò il controllo dei confini terrestri, permettendo il passaggio di materiali edili per la ricostruzione (dei tunnel, come si capirà poi).

 

La situazione a Gaza era relativamente ferma dopo l’operazione “Piombo fuso”, conclusa circa un anno e mezzo prima con la sconfitta di Hamas e un cessate-il-fuoco (in un’intervista, Meshal dirà “siamo in una hudna, una tregua provvisoria”). Nel 2008, due navi organizzate da attivisti occidentali (fra di loro anche Vittorio Arrigoni, che sarebbe stato poi assassinato a Gaza da un gruppo salafita in circostanza mai chiarite) insieme al Bds, il movimento fondato da Omar Barghouti che sostiene boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele come arma di guerra alternativa, erano riuscite a forzare il blocco navale. Se gli aiuti portati furono simbolici (“apparecchi acustici e palloni per i bambini”), l’effetto mediatico fu notevole, e fu probabilmente allora che gli obiettivi di Hamas si saldarono con quelli del Bds. L’attivista palestinese Mustafa Barghouti (nessun legame familiare certo con Marwan né con Omar, se non l’appartenenza allo stesso clan) ricordava che, fino ad allora, Hamas aveva definito le tattiche non-violente “guerra di donnicciole” ma che si era ricreduta con i primi successi, tanto da promuovere marce non-violente sul confine di Gaza. E’ così che, nonostante il fallimento clamoroso di questo nuovo e più ambizioso tentativo, Aziz Dweik, membro di Hamas, dichiarò che “mentre quando usiamo la violenza aiutiamo Israele a conquistare sostegno internazionale, la Flotilla ha fatto per Gaza più di diecimila missili”; e Meshal  la definì “un’iniziativa coraggiosa”, che era riuscita a rompere l’assedio e denunziare un crimine disumano da fermare, aggiungendo: “Se Dio vuole, la Freedom Flotilla sarà la mossa finale che romperà l’assedio che ci opprime”. Aveva poi concluso ringraziando la Turchia, “che ha sopportato le conseguenze più gravi di questo crimine, dato che la maggior parte dei martiri è venuta da lì, e che ha avuto il ruolo maggiore nella campagna per rompere l’assedio di Gaza”.

 

 

In effetti, non la maggior parte bensì tutte le nove vittime del raid erano turche, erano a bordo della stessa nave, la Mavi Marmara, e facevano parte dello Ihh, l’organizzazione turca parastatale proprietaria e armatrice di tre delle navi della Flotilla e promotrice dell’iniziativa insieme al Free Gaza Movement, di cui dirò poi. L’Ihh (Fondazione per i diritti umani e le libertà e per l’aiuto umanitario) è quella che si definisce orwellianamente una “organizzazione non governativa organizzata dal governo” (Gongo). Istituita negli anni Novanta del secolo scorso come ente di beneficenza islamico per l’aiuto ai musulmani bosniaci e presente in oltre cento stati, è diventata con l’avvento di Erdogan un’agenzia del governo turco volta a sostenerne gli obiettivi egemonici sotto la copertura dell’aiuto umanitario (che viene peraltro effettivamente portato in molte occasioni). Testimonianze e registrazioni rese note dopo il raid sembrano indicare che l’equipaggio della Mavi Marmara era in parte composto da militanti dell’Ihh con l’ordine di resistere a eventuali tentativi di sequestro da parte di Israele, e che lo stesso Erdogan era al corrente della possibilità di uno scontro armato. Tutte le vittime mostravano segni di morte violenta, come conseguenza probabile di tale scontro.

 

All’epoca l’ostilità turca verso Israele era in bella vista, sotto la copertura della difesa di Gaza. Qualcuno ricorda forse un famoso scontro verbale fra Erdogan e Shimon Peres a Davos, dove il premier turco chiese “un minuto ancora” per accusare Israele di massacri a Gaza, guadagnandosi così il ruolo di paladino della causa palestinese, ossia di Hamas (la scena divenne simbolo dell’opposizione turca a Israele, al punto che “Un minuto” è il nome di una recente offensiva dell’intelligence turca contro le infiltrazioni del Mossad). In realtà, l’oggetto del contendere fra i due paesi era, allora come ora, la Siria, dove proprio fra il 2009 e il 2010 Erdogan aveva stabilito una salda alleanza con il regime di Assad, formando un blocco anti israeliano che all’epoca comprendeva anche l’Iran e la Russia, e offrendo sostegno ad Hamas in vari modi, secondo la tattica della guerra by proxy che ha permesso alla Turchia di essere presente allo stesso momento in molteplici conflitti mediorientali. 

 

Un’ultima parola va detta sul Free Gaza Movement, organizzatore della Flotilla insieme all’Ihh, per la parte riguardante gli attivisti occidentali. Fondato da un gruppo di attivisti antisionisti israeliani e americani, il movimento – che il direttore dell’Atlantic, Jeff Goldberg (quello che ha rivelato il Signalgate), ha definito come “l’avanguardia della campagna internazionale che mira a delegittimare Israele e a sancirne la fine in quanto patria nazionale del popolo ebraico” – aveva già provato a organizzare spedizioni di aiuto verso Gaza, senza successo e senza il clamore di quest’ultima. 

 

Fino a oggi

Dopo la prima Freedom Flotilla e prima di quella attuale, vi è stata almeno un’altra Flotilla degna di rilievo, la Freedom II “Stay Human” (citazione del motto di Arrigoni, morto poco prima), che non riuscì tuttavia a lasciare i porti greci e turchi di partenza e fallì prima di cominciare, anche per il sabotaggio delle navi effettuato probabilmente per ordine del governo turco. La Turchia fu infatti questa volta ostile all’impresa, come molti governi occidentali e come il Quartetto per il medio oriente (Unione europea, Stati Uniti, Russia e Nazioni Unite), all’epoca in uno dei suoi rari momenti vitali. Nonostante l’appello dell’allora capo del governo di Hamas, Mohamed Awad, a “tutti i paesi del mondo” perché partecipassero alla spedizione, gli attivisti occidentali dovettero rinunziare, con l’eccezione dei pochi occupanti di una nave francese, intercettata dagli israeliani e rispedita indietro.
Andiamo avanti fino ai giorni nostri. L’ultimo quindicennio ha visto la diffusione e il rafforzamento delle reti islamiste transnazionali nei paesi occidentali, per motivi complessi sui quali sarebbe urgente che la politica rifletta e intervenga. Il modo di strutturazione di questo network è quello dell’attivismo diffuso, appoggiato a contenitori (reti di soccorso, associazioni culturali e religiose) che dissimulano l’intento finale dell’organizzazione. Questo è il modo in cui i Fratelli musulmani si sono diffusi fin dalla loro nascita circa un secolo fa, ed è anche il modo di diffusione del Bds, quest’ultimo appoggiandosi piuttosto a contenitori laici e all’attivismo sociale, come indicano oggi anche da noi le numerosissime sigle associazioniste intitolate a Gaza, e le iniziative congiunte con varie realtà politiche di base.

 

Entrambi i movimenti sono ai margini della legalità in molti paesi occidentali, in una zona grigia che permette a molti dei loro esponenti di agire apertamente. Nei paesi musulmani, dove il Bds è generalmente accettato, i Fratelli sono banditi dagli stati che oggi sono disposti a riconoscere Israele e mal tollerati da molti altri, ma la mobilitazione può contare in ogni caso sulla struttura ufficiale e solida dell’Ihh (la Turchia peraltro ospita e protegge apertamente la Fratellanza e Hamas). Sono queste le reti che si sono attivate per l’organizzazione delle nuove spedizioni verso Gaza, dopo aver sostenuto e alimentato l’ondata mediatica di odio per Israele e di sostegno per Hamas. Il momento scelto sembra coincidere con il nuovo deterioramento delle relazioni fra Israele e Turchia sulla questione siriana, e di nuovo è stato preceduto da forti tensioni su Gaza, fino alla rottura delle relazioni diplomatiche da parte della Turchia e alla chiusura dello spazio aereo fra i due paesi. E’, fra l’altro, nell’ambito della risposta israeliana all’ostilità turca che Netanyahu ha ritenuto, il 26 agosto, di riconoscere il genocidio armeno, con un bell’esempio dell’attuale uso politico del “G-word”, se ce ne fosse stato bisogno.

 

L’attuale Flotilla – Freedom Flotilla III o Sumud Flotilla (“sumud”, resistenza nel senso di tenacia e sopportazione, è la facciata “civile” della “muqawama”, resistenza armata) segue due tentativi a giugno e a luglio di quest’anno, entrambi falliti ma destinati verosimilmente a sondare la consistenza dell’organizzazione e l’opinione pubblica. Entrambe le spedizioni, partite dall’Italia (su quella di giugno, come su quella attuale, era imbarcata Greta Thurnberg), contavano poche decine di attivisti e sono state fermate dalla marina israeliana. Entrambe sono state apertamente organizzate da Zaher Birawi, esponente di Hamas con cittadinanza britannica, che ha dichiarato ad al Jazeera che “la Freedom Flotilla Coalition (Fcc) che organizza queste navi non è un ente di beneficenza, ma ha obiettivi mediatici e politici”. 

 

In effetti, poco è stato lasciato all’improvvisazione nel nuovo progetto, che ha inondato i media mondiali di comunicati emessi da sigle riconducibili alla piattaforma Ffc, mega-contenitore mediatico virtuale meticolosamente organizzato per amplificare il messaggio propagandistico e nascondere allo stesso tempo le finalità politiche reali. Fra queste, fa eccezione il risalto dato nella piattaforma alla rivendicazione da parte del Bds dei giacimenti di petrolio e gas naturale nelle acque al largo di Gaza, riconosciuti internazionalmente a Israele (“Il furto israeliano delle risorse di Gaza e la risposta del Bds”). Gli obiettivi mediatici comunicativi sono stati invece ampiamente raggiunti, fin da prima della partenza. Un esempio è la processione di genovesi che portavano viveri alle navi in partenza da Genova, salutati da Mohamed Hannoun, anche lui esponente riconosciuto di Hamas, o la corsa delle amministrazioni comunali e dei partiti per associarsi alla Flotilla. Questa è intanto salpata con il suo carico umano in gran parte ignaro della vera finalità dell’impresa, salutata dall’invito di Francesca Albanese a “unirsi a loro al più presto possibile, perché insieme dobbiamo spezzare il blocco e insieme dobbiamo contribuire a salvare Gaza. Restate forti”. 

 

Come in passato, è poco verosimile che questa enorme iniziativa di propaganda e disinformazione, che è nei fatti un’azione di guerra ibrida condotta da attori terzi inconsapevoli by proxy, raggiunga l’obiettivo di sfamare Gaza, mentre è probabile che sarà nuovamente bloccata in modo, si spera, incruento dalla marina israeliana. In tutti i casi, l’esito è già una vittoria mediatica per la coalizione Turchia-Hamas-Bds e una sconfitta per le persone di buona volontà e i politici in cerca di visibilità che abbiano ritenuto di doversi associare.

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