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Prove di egemonia al teatro di Xi Jinping

Giulia Pompili

Iran e India, con l’aiutino di Donald Trump, più vicini alla Cina. E a Pechino si parla anche di Ucraina

Il leader cinese Xi Jinping e la first lady Peng Liyuan hanno accolto ieri nella città portuale di Tianjin i capi di stato e di governo dei paesi membri della Sco, l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai: mai come quest’anno di presidenza cinese, il vertice dell’organizzazione, nata nel 2001 come ennesima piattaforma alternativa a quelle a guida occidentale, rappresenta un punto di rottura: quello fra l’America e le democrazie a essa alleata e il gruppo dei paesi non allineati – o meglio, ormai da tempo ufficialmente allineati a Pechino, la seconda economia del mondo, l’unica grande potenza considerata capace di sfidare l’ordine globale a guida americana. E sui media asiatici ieri si parlava molto della presenza del primo ministro indiano Narendra Modi in Cina: nessuno più di lui rappresenta lo scontro con l’America di Donald Trump e con  il nuovo metodo di politica estera della Casa Bianca. Dopo anni in cui Washington aveva lavorato per trasformare  l’India in un paese alleato anche in chiave anticinese, i dazi di Trump e il suo atteggiamento condiscendente nei confronti del Pakistan hanno finito per far volare Modi in Cina, il suo primo viaggio in sette anni nel paese, rendendo più concreto un riavvicinamento fra Nuova Delhi e Pechino. Nel bilaterale di ieri, Modi ha detto che riapriranno i voli diretti fra Cina e India, che la crisi al confine himalayano è completamente rientrata (molti osservatori credono sia una descrizione piuttosto ottimistica) e che “le due nazioni più popolose del mondo sono partner e non rivali”.

   

Per Xi Jinping è un primo grande successo: Trump ha spinto l’India di Narendra Modi alla sua corte. Ma non solo. Ieri la Guida suprema dell’Iran Ali Khamenei ha scritto un messaggio su X in mandarino, e ha detto che l’Iran e la Cina “hanno il potere di innescare una trasformazione nella regione e nel mondo”. L’Iran è diventato membro della Sco due anni fa, dopo India e Pakistan, e il suo arrivo ha mostrato più evidente la direzione di una piattaforma per la sicurezza che più che al G7 ha l’aspirazione di diventare una piccola Nato. La Cina, che è il maggiore acquirente del petrolio sotto sanzioni iraniano, ha accolto ieri il presidente Masoud Pezeshkian pronto a firmare diversi accordi bilaterali con Pechino.

 

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Ma il leader più atteso, e anche quello più considerato nel cerimoniale cinese, era uno: circa tremila giornalisti hanno assistito ieri all’ingresso trionfale del presidente della Federazione russa, Vladimir Putin, nella sala del tappeto rosso dove lo aspettava Xi. Il bilaterale fra i due è previsto per domani, a vertice  concluso, ma già ieri Putin ha inviato un messaggio all’occidente in un’intervista all’agenzia cinese Xinhua. Ha lodato  Xi (“E’ un uomo dalla forte volontà, dotato di visione strategica e prospettiva globale”) e ha elogiato la cooperazione fra i due paesi per dare voce a quella che Putin chiama “la maggioranza globale”: con la Cina “condividiamo opinioni simili sulla sicurezza regionale e internazionale e assumiamo una posizione comune contro le sanzioni discriminatorie che ostacolano lo sviluppo socioeconomico dei nostri membri e del mondo in generale”, un messaggio contro le sanzioni imposte dall’occidente per via dell’invasione su larga scala dell’Ucraina. E Kyiv sarà al centro di diversi dibattiti, soprattutto quelli dell’unico leader di un paese membro della Nato che fa parte anche della Sco: il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che oggi avrà un bilaterale con Putin proprio per tentare di costruire l’opportunità di un vertice con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. La Russia continua a bombardare l’Ucraina e a prendere tempo, quasi venti giorni dopo lo storico incontro in Alaska fra Trump e Putin. I colloqui con Kyiv e i paesi europei sono  fermi perché mancano le garanzie di sicurezza necessarie per l’Ucraina prima di un qualsiasi accordo con il Cremlino, ma l’altro ieri il Financial Times ha scritto che sarebbe stato lo stesso Trump a proporre un ruolo da peacekeeper per la Cina di Xi, un’idea più volte rifiutata sia dall’Europa sia da Zelensky per via della posizione chiaramente pro russa di Pechino, che non ha mai condannato formalmente l’invasione. E così adesso alcuni alti funzionari della Casa Bianca ritengono che alcuni leader europei “stiano pubblicamente sostenendo gli sforzi di Trump per porre fine alla guerra in Ucraina, mentre cercano silenziosamente di vanificare i progressi compiuti dal vertice in Alaska”, ha scritto ieri Axios. E’ l’ennesimo cortocircuito di una trattativa in cui alla volubilità del presidente americano si unisce la capacità persuasiva di Xi Jinping, il padrino dietro le quinte di un asse che vuole sempre più potere.  

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.