
La foto satellitare dell’Aya 1 a Bengasi il 10 agosto
darfur express
Così l'Ue ha chiuso un occhio davanti alla violazione dell'embargo delle armi in Libia e Darfur
Inchiesta sulla nave carica di munizioni e pickup perquisita in Grecia ma lasciata partire per la Misurata, Bengasi e Tobruk per timore dei migranti. Le foto, le testimonianze e la lettera di Irini al presunto trafficante: “Grazie della collaborazione”. Il caso della Aya 1 e sui suoi traffici dagli Emirati
All’inizio di luglio, l’intelligence americana ha segnalato al comando della missione militare europea Irini una nave sospetta. La portacontainer Aya 1, questo è il nome della nave battente bandiera panamense, era partita il primo luglio dal porto di Mina Jebel Ali, negli Emirati Arabi Uniti, e secondo i sistemi satellitari Ais la sua destinazione era Terneuzen, nei Paesi Bassi. Per gli americani, però, il cargo era diretto altrove, a Bengasi, nell’est della Libia, e non trasportava cosmetici, sigarette e materiale elettronico come da documentazione, bensì munizioni e centinaia di pickup per operazioni militari.
Immagini satellitari visionate dal Foglio indicano che il 22 luglio nei pressi di Creta l’Aya 1 è stata avvicinata dalla fregata greca Themistokles e da quella italiana Francesco Morosini, entrambe impegnate in Irini. La missione europea, passata a luglio sotto il comando italiano, è stata lanciata cinque anni fa allo scopo di vigilare sull’embargo delle armi in Libia. Stavolta però le cose sono andate diversamente. Secondo almeno quattro persone informate dei fatti, ma che preferiscono restare anonime vista la sensibilità dell’argomento, le perquisizioni a bordo della Aya 1 hanno confermato che effettivamente trasportava centinaia di fuoristrada blindati e munizioni destinati in Libia e da lì in Sudan, alle Rapid Support Forces (Rsf) comandate da Mohamed Hamdan Dagalo, meglio noto come Hemedti, sostenuto dagli Emirati Arabi Uniti. Ciononostante, alla Aya 1 è stato concesso di proseguire il suo viaggio verso la Libia. Il Foglio è riuscito a ricostruire come e perché l’Europa abbia chiuso un occhio davanti alla violazione dell’embargo, ma è anche riuscito a risalire all’uomo che si è reso responsabile di questo traffico di armi dagli Emirati Arabi Uniti al Sudan, passando per la Libia.
Per primo era stato il quotidiano greco To Vima a diffondere indiscrezioni sul carico sospetto a bordo della Aya 1. Come previsto dalle regole di ingaggio – particolarmente deboli – di cui è dotata Irini, il comando della missione ha prima dovuto chiedere allo stato di bandiera il permesso per ispezionare la nave. “Le procedure per compiere questo genere di perquisizioni sono complesse – spiega una fonte militare – Per questo, di solito, quando Irini ottiene il permesso di abbordare un cargo fa le cose per bene e soprattutto ne dà pubblicità per dimostrare che la missione funziona”. Nel caso della Aya 1, però, i canali comunicativi di Irini sono rimasti stranamente in silenzio, forse per timore di destare troppo clamore. Dopo avere perquisito la portacontainer in alto mare, la sera del 27 luglio l’italiana Francesco Morosini ha scortato la nave fino al porto greco di Astakos, dove è rimasta ormeggiata per i successivi quattro giorni. E’ durante questa sosta forzata che è iniziato un intenso lavorio diplomatico tra Atene, Dubai, Bruxelles e Tripoli, una trattativa di cui il premier greco in persona, Kyriakos Mitsotakis, almeno secondo la stampa ellenica, sarebbe stato aggiornato costantemente. Jalel Harchaoui, del Royal United Services Institute di Londra, ci spiega che la questione era piuttosto delicata per Atene: “I greci sono nel pieno di una contesa con il leader della Cirenaica, il generale Khalifa Haftar, riguardo al flusso di migranti dall’est della Libia verso Creta che tra maggio e giugno ha raggiunto un picco insostenibile”.
“Senza contare la disputa per i confini marittimi e il pasticcio della delegazione europea cacciata da Bengasi due mesi fa dalle autorità dell’est della Libia – continua l’analista – Da una parte, il governo ellenico non voleva indispettire gli alleati americani che avevano segnalato la nave, ma dall’altra non volevano nemmeno irritare ulteriormente Haftar”. Secondo quanto ricostruito, la soluzione trovata da Atene è stata piuttosto elaborata. Dapprima, ha raccolto il materiale che provava la violazione dell’embargo da parte degli Emirati Arabi Uniti inviando tutte le evidenze al Panel of Experts delle Nazioni Unite che si occupa della Libia. Subito dopo, però, i greci hanno chiesto a Irini di autorizzare la nave a ripartire e a consegnare ugualmente il suo carico. L’espediente trovato per evitare di farlo sbarcare direttamente a Bengasi, nelle mani delle autorità dell’est che non sono riconosciute dalla comunità internazionale, è stato quello di dirottarlo verso ovest, cioè facendolo prima passare attraverso il governo di Tripoli, riconosciuto dall’Onu. Interpellato dal Foglio, un portavoce della Commissione Ue ha confermato che, “dopo avere ricevuto la documentazione necessaria dal governo di unità nazionale della Libia, secondo le esenzioni in forza all’embargo delle armi delle Nazioni Unite, la nave è stata autorizzata a riprendere il suo viaggio in Libia”. In sostanza, Bruxelles ha dato il via libera alla consegna delle armi facendole passare dalla Libia e avvalendosi delle esenzioni, dall’interpretazione spesso vaga, che permettono di agire in deroga all’embargo.
Così, il primo agosto, la Aya 1 ha ripreso il mare, ma invece di fare rotta verso Bengasi, come inizialmente era nei suoi piani, si è diretta a Misurata, nell’ovest, dove ha attraccato il 4 agosto. Qui, secondo fonti militari che preferiscono restare anonime, una parte dei pickup è stata scaricata, come dimostra anche un video registrato alcune settimane dopo lungo la strada che da Misurata porta a Tripoli.
Nel video (qui sotto) compaiono almeno tre bisarche caricate con quelle che sembrano decine di Toyota Land Cruiser 79 beige e verosimilmente anche con alcune Toyota Land Cruiser V8, entrambi modelli molto diffusi nella guerra in corso in Sudan. Per evitare complicazioni, talvolta il montaggio della blindatura dei pickup avviene solo una volta sbarcati in Libia. Un’indagine condotta dal Center for Information Resilience (Cir) uscita poche settimane fa e basata sull’analisi dei video postati online dagli stessi combattenti sudanesi, dimostra come questi mezzi siano impiegati dagli uomini di Hemedti accampati a sud di al Jawf, nel deserto del Sahara e in pieno territorio libico. Da lì sono state lanciate diverse operazioni militari nel nord del Darfur che spesso sfociano in massacri di civili inermi. La settimana scorsa, una di queste offensive della Rsf ha portato all’uccisione di circa 1.500 sfollati del Darfur nel campo profughi di Zamzam.
“La consegna di questi veicoli alle autorità di Tripoli è stata una specie di mancia, forse una ricompensa data dagli Emirati al premier libico Abdelhamid Dabaiba per avere permesso che il carico non andasse perduto e arrivasse ugualmente in Libia”, ha detto al Foglio un funzionario diplomatico. Così, una parte dei mezzi è stata redistribuita tra le milizie fedeli al governo di Tripoli, prevalentemente a beneficio della Brigata 111 comandata da Abdul Zamad al Zoubi, viceministro della Difesa. Il resto del carico è invece ripartito il giorno successivo alla volta di Bengasi prima e di Tobruk poi, seguendo una rotta inedita. Immagini satellitari mostrano le operazioni di scarico nei porti libici dell’est. Da qui, il viaggio dei pickup è proseguito verso il Sudan e a provare che la consegna è arrivata a destinazione potrebbe essere un video pubblicato domenica scorsa su X. Si mostrano uomini delle Rsf alla guida di oltre un centinaio di Toyota Hilux in viaggio nel Sahara libico verso Nyala, nel Darfur meridionale. Una carovana che potrebbe fare parte del carico della Aya 1.
Dall’inizio del conflitto due anni fa, le milizie paramilitari di Hemedti possono contare sul sostegno militare degli Emirati Arabi Uniti, interessati al controllo dei traffici nel triangolo di terra compreso tra Sudan, Libia ed Egitto. Tra i metodi prediletti dagli emiratini per rifornire di armi le Rsf c’è il ponte aereo che parte da Ras al Khaimah e da al Ain, negli Emirati, e arriva a Bengasi o a Kufra, nella parte di Libia controllata dal loro alleato Haftar. Da qui, i carichi viaggiano verso sud per arrivare a destinazione. Analisti indipendenti come Rich Tedd, che da anni segue i rifornimenti tra Emirati e Africa, hanno trovato i tracciati di questo ponte aereo dimostrando come si alimenti su base quasi quotidiana. “Per quanto riguarda i pickup blindati, ne passano migliaia dal deserto libico verso il Sudan, in media c’è un carico ogni tre settimane”, ci conferma la fonte diplomatica.
L’alternativa agli aerei sono le navi. Di solito è difficile intercettare e ispezionare i cargo che trasportano armi via mare. “Su Irini pesano le complicazioni burocratiche che rendono difficile fermare e perquisire una nave sospetta. E poi ci sono le divisioni fra i paesi membri dell’Ue, che spesso la usano come strumento per i propri fini personali”, ci dice un ufficiale di una Marina Militare europea. Un po’ come è successo con i greci nel caso dell’Aya 1. Stavolta però la segnalazione dell’intelligence americana aveva costretto gli europei a intervenire, replicando quanto era avvenuto nel luglio del 2024, quando gli Stati Uniti “suggerirono” alla nostra Guardia di Finanza di perquisire e sequestrare un container sospetto sbarcato al porto di Gioia Tauro e poi rivelatosi carico di droni di fabbricazione cinese diretti in Libia.
“Quando gli americani intervengono per arginare il traffico di armi in Libia è perché hanno un interesse diretto”, spiega una fonte. E nel caso dell’Aya 1, l’interesse diretto ha un nome e un cognome, che il Foglio è riuscito a individuare e che è il proprietario della compagnia che gestisce la nave. Si tratta di un uomo d’affari libico, Ahmad Gadalla, definito da chi lo conosce “un uomo molto pericoloso”, proprietario di diverse società tra gli Emirati Arabi Uniti e la Libia. Tra queste, c’è anche l’Alushibe Group, una compagnia che si occupa di logistica e spedizioni internazionali con sede a Dubai e che, secondo gli archivi Seasearcher del Lloyd’s List Intelligence, un portale che fornisce informazioni sulle navi in circolazione, è la proprietaria dell’UDS Shipping Sevices LLC, basata negli Emirati e operatore commerciale dell’Aya 1. Talvolta Ahmad Gadalla si fa chiamare Ahmad Alushibe, come si desume incrociando le foto e le informazioni reperibili online sulle attività delle sue compagnie con una copia del passaporto di Gadalla, di cui il Foglio è venuto in possesso.
Il motivo della doppia identità di Ahmad potrebbe risiedere in alcuni guai avuti con la giustizia emiratina tra il 2016 e il 2018, raccontati un anno fa dall’emittente Libia 360. Mentre cercava di costruirsi una propria rete di affari a Dubai, Gadalla entrò in affari con compagnie collegate a organizzazioni legate al terrorismo islamico. Secondo i media libici, la segnalazione degli americani avrebbe portato le autorità emiratine ad arrestare Gadalla e, a quel punto, sarebbe stato Khalifa Haftar a intercedere per lui con la monarchia di Abu Dhabi e riabilitarlo. “Il motivo è che durante l’offensiva contro Tripoli, nel 2019, gli Emirati erano uno dei principali sponsor economici e militari di Haftar. E’ allora che si resero conto che un uomo come Gadalla, attivo fra i due paesi e con una sua rete di contatti, potesse tornare utile a entrambi”, racconta una fonte libica.
Il Foglio è riuscito a contattare telefonicamente il signor Gadalla, che ha smentito ogni accusa. “Il fatto è che sono un imprenditore molto importante e sono visto come un problema da tutti i corrotti che mi invidiano, perché io sto facendo grandi cose per il mio paese. Stanno solo cercando di screditarmi. Non so nulla di questi traffici né con la Libia né con il Sudan”, ci spiega mentre dice di essere in Germania per concludere un contratto da 400 milioni di euro con la Siemens – “ma faccio molti affari anche in Italia, con la Danieli per esempio”. Gadalla smentisce anche di essere stato arrestato a Dubai. “Alcune mie compagnie hanno avuto a che fare con altre che avevano problemi. Hanno indagato sul mio conto e non hanno trovato nulla. Mi hanno requisito il passaporto per qualche mese e basta”. A proposito della doppia identità, ci spiega che sarebbe solo un espediente “perché Gadalla è un nome molto diffuso, mentre Alushibe è più facile da ricordare”.
A ogni modo, negli anni Ahmad è diventato uno degli uomini d’affari più influenti nell’est della Libia, con un ruolo di primo piano anche nella Banca di commercio e sviluppo di Bengasi, guidata da Saddam Haftar stesso. “Ha un posizione privilegiata, tanto che ogni volta che gli Haftar hanno bisogno di aiuto o denaro – che sia per investimenti, traffici internazionali o appalti – si rivolgono a lui”, racconta la fonte libica. “Sono il presidente della più grande fabbrica al mondo di acciaio verde a Bengasi. Certo che conosco gli Haftar, come chiunque faccia affari nell’est”, ribatte Gadalla.
“Gli americani lo seguono da tempo perché ha a che fare anche con russi e cinesi in Libia”, ci spiega una persona informata dei fatti. Ma non solo. Ciò che più preoccupava gli americani è il traffico di gasolio. Immagini satellitari mostrano la Aya 1 impegnata in attività sospette lo scorso marzo a Tobruk, nella Libia orientale. Nelle foto in basso, la portacontainer è ritratta durante operazioni di carico di quello che sembra essere gasolio, come dimostrano gli 11 camion cisterna fermi al molo in prossimità della nave.
Le anomalie in questa foto sono due. La prima è che la Libia è un grande importatore netto di gasolio ed è quindi strano che una nave sia impegnata per esportarlo. “Tutto fa pensare a un traffico illecito”, dice la nostra fonte. La seconda anomalia riguarda la natura stessa della Aya 1 che, come detto, è una portacontainer, non una gasoliera. “Il metodo usato per trasportare il gasolio è pericoloso ma efficace se si vuole nascondere il carico ed è quello di ricorrere a sacche flessibili nascoste a loro volta all’interno dei container – ci spiegano – La nave sarebbe stata tracciata più volte dagli Stati Uniti durante questi traffici sospetti ma per segnalarla a Irini si è voluto aspettare che il carico riguardasse armi e pickup. Forse perché si erano convinti di poterlo accusare di qualcosa di ancora più grave”. Un errore, a giudicare da come si sono evoluti gli eventi.
“Dovete scrivere cose buone sul mio conto, se non lo fate nessun problema, vi concedo il diritto di farlo ma vedete, non ho niente da nascondere. Niente traffici di armi, né di gasolio – insiste Gadalla – Pensi che quelli di Irini mi hanno mandato una lettera per chiedermi scusa”. In effetti, l’imprenditore libico ci ha inoltrato la lettera inviatagli dalla missione europea, firmata dal nostro ammiraglio Valentino Rinaldi, comandante di Irini: “Esprimo la mia gratitudine a lei per la gentile collaborazione dimostrata nei confronti di EUNAVFOR MED Irini”, scrive il comandante a Gadalla. “Vi chiedo gentilmente di dirigere la Aya 1 al porto di Tripoli per lo scarico sotto la supervisione del governo di unità nazionale libico. EUNAVFOR MED provvederà all’immediato rilascio di Aya 1”. La lettera dell’ammiraglio Rinaldi è un documento molto importante per diversi motivi. Il primo è che, al di là dei toni cortesi e concilianti, non si tratta di una vera lettera di scuse. In nessun passaggio Irini dichiara che a bordo della nave non è stato trovato materiale proibito dall’embargo in Libia. Inoltre, si chiede espressamente al comandante ucraino del cargo, capitano Antonyuk Volodymyr, di fare rotta verso Tripoli, ma la nave invece si dirigerà alla fine verso Misurata, violando le indicazioni della missione europea. Infine, nella missiva si ordina di scaricare a Tripoli, ma le immagini satellitari dimostrano che invece la nave ha consegnato parte dei container anche a Bengasi – se non anche a Tobruk, considerando che lì l’ormeggio è durato almeno 19 ore – pure in questo caso senza rispettare gli ordini della missione europea.
È così che la vicenda dell’Aya 1 ha potuto risolversi nel giro di poche settimane, apparentemente nel migliore dei modi per Gadalla, con almeno parte del carico consegnata al destinatario in Sudan e con la sua nave libera di portare avanti i suoi traffici. Proprio in questi giorni, la portacontainer è in navigazione nel Golfo di Aden e fa rotta verso il porto da dove tutto è iniziato, quello di Jebel Ali, negli Emirati Arabi Uniti. Ma nei prossimi mesi il business del potente imprenditore libico potrebbe essere più traballante, visto che, nel frattempo, il Panel of Experts delle Nazioni Unite sta compilando il suo rapporto sul caso dell’odissea dell’Aya 1.