
Il "modello Corea" per l'Ucraina, di nuovo
Le premesse diverse rispetto all’Ucraina e le conseguenze poco auspicabili lungo il 38° parallelo
Nel 1952, il repubblicano Dwight D. Eisenhower venne eletto presidente americano anche grazie alla sua promessa di porre fine a una guerra che aveva ucciso, oltre a tre milioni di civili, pure trentamila soldati americani. I colloqui per arrivare all’armistizio della Guerra di Corea, che non si è mai trasformato in un trattato di pace, sono considerati i più lunghi della storia: durarono due anni, furono estenuanti. Anche quella guerra è considerata tecnicamente una guerra d’invasione – in Corea del sud la chiamano yugio, vuol dire 6-25, perché i nordcoreani iniziarono l’attacco a sorpresa contro il Sud alle 10 del mattino del 25 giugno. Ma per entrambe le parti (e non per la riscrittura storica di una sola parte, di una potenza revisionista) era una guerra per la riunificazione: la penisola era stata divisa cinque anni prima, dopo la fine dell’occupazione giapponese, sotto sfere d’influenza opposte.
Si parla da tempo del modello coreano rispetto alla strategia posta in essere dall’attuale presidente Donald Trump con la Russia e l’Ucraina, ed è per lo più una semplificazione giornalistica, ma ci sono molte lezioni che si possono trarre da quell’evento. Sia Pyongyang sia Seul, che nel 1948 si erano dotate di rispettive forme di governo, ambivano al ritorno dei confini del 1945. Kim Il Sung, il protetto di Unione sovietica e Cina, tentò la riunificazione con la forza, la storia non ha mai confermato se l’abbia fatto con il via libera di Mosca o Pechino. Syngman Rhee, primo presidente della Repubblica di Corea, leader autoritario e anticomunista, si era convinto di poterci arrivare dopo lo scoppio della guerra. E’ per questo che la Corea del sud non ha mai firmato l’armistizio.
In una famosissima e accorata lettera, Eisenhower cerca di convincere Rhee: “E’ giunto ora il momento in cui dobbiamo decidere se proseguire la lotta per l’unificazione della Corea attraverso la guerra oppure perseguire questo obiettivo con metodi politici e di altro tipo”. Seul non stava perdendo nulla, era Rhee che voleva di più. E così, sei mesi dopo l’insediamento di Eisenhower, alle dieci del mattino del 27 luglio del 1953 il generale a tre stelle dell’Esercito americano William Harrison Jr., in rappresentanza dell’America e del comando delle Nazioni Unite, era seduto nelle casette blu lungo la linea di demarcazione di Panmunjom, lungo il 38° parallelo che divide ancora oggi la Corea del nord dalla Corea del sud, per firmare il cessate il fuoco con il generale nordcoreano Nam Il. Uno dei problemi fondamentali che prolungò i colloqui fu quello dei prigionieri di guerra: moltissimi cinesi e nordcoreani non volevano essere rimpatriati. Il 13 luglio, poco prima della finalizzazione della tregua, Syngman Rhee decise di rilasciare 27 mila prigionieri che rifiutavano il rimpatrio. L’armata cinese intensificò allora la sua controffensiva contro Kumsong, in quella che viene definita l’ultima sanguinosa punizione prima della tregua.
Oggi la Corea del sud è un paese industrializzato, forte, ma la sua identità è ancora intrinsecamente legata alla divisione di ottant’anni fa, alla guerra mai davvero finita, alle famiglie spezzate e alla imprevedibilità di un dittatore armato di armi nucleari che ormai non spera più nella riunificazione, ma considera il Sud un nemico. Negli ultimi 73 anni, sebbene la Zona demilitarizzata sia diventata un luogo quasi turistico, di crisi più o meno gravi ce ne sono state molte, ci sono stati morti, aggressioni, bombardamenti. Al servizio militare obbligatorio che tutti i maschi sudcoreani sono costretti a fare, la prima cosa che si impara è: la Corea del nord è una minaccia esistenziale per la libertà sudcoreana.