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Gli impastatori

Facce e storie di chi domani sarà al tavolo di Anchorage

I profili pubblici e personali di chi ambisce alla pace con Kyiv o a prendere ancora tempo. Tra i soliti noti già confermati e chi è tuttora in bilico

Cosa sa Donald Trump di Vladimir Putin? Come si sta preparando? Chi lo sta preparando? Sono domande assillanti prima dell’incontro in Alaska, di cui si conosce il luogo: Anchorage, nella base americana Elmendorf-Richardson, l’unica in grado di garantire un livello di sicurezza adeguato. Il capo del Cremlino metterà piede negli Stati Uniti per la prima volta dal 2015 e lo farà avendo bene in mente  quando si sedette per un bilaterale con Donald Trump, a Helsinki nel 2018. Quell’incontro è ricordato come un disastro per il presidente americano che disse davanti ai giornalisti di fidarsi più del presidente russo che delle inchieste dell’Fbi e se Putin giurava che non ci fosse stato nessun tentativo di interferenza nelle elezioni presidenziali americane del 2016, c’era da credergli. Putin, in quell’occasione, non faceva che sorridere. Sono molti i leader internazionali che hanno cercato di vedere in lui un alleato.  

Alcuni hanno creato un rapporto personale, come l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Ma nessuno ha cercato con tanta insistenza come Donald Trump di dimostrare che della Russia ci si poteva fidare. Il Financial Times ha chiesto a molti esperti chi siano i referenti di Trump per la Russia e la grande preoccupazione è che il capo della Casa Bianca non  abbia uomini capaci di capire la Russia, o che l’abbiano mai studiata, mentre Putin dalla sua ha una schiera di diplomatici esperti che da decenni si esercitano in colloqui con gli occidentali. Il capo del Cremlino si è visto passare avanti cinque presidenti americani e ora crede di poter utilizzare l’ignoranza di Donald Trump come un vantaggio. Da alcuni giorni, alcuni diplomatici americani ed europei non fanno che evocare la figura di George Shultz, l’economista ed ex segretario di stato che ebbe un impatto determinante nella politica di Ronald Reagan e prima di andare a qualsiasi incontro, portava sempre con sé gli esperti regionali. Lo fece prima di tutto con i russi, per preparare il vertice  tra Reagan e Mikhail Gorbaciov. Non ci sono figure simili a George Shultz nell’Amministrazione attuale, ma qualcuno sia da parte russa sia americana ha lavorato, impastato e brigato affinché Trump e Putin avessero il loro incontro in Alaska. Alcuni di loro saranno anche dentro la stanza in cui si terrà il vertice.

 

 

Steve Witkoff (foto ANSA)

                
 
Steve Witkoff, inviato speciale degli Stati Uniti (ufficialmente per il medio oriente) 

L’imprenditore e amico personale di Donald Trump non sa nulla di diplomazia, era stato destinato al medio oriente, ma il capo della Casa Bianca si fida molto di lui così ha deciso di mandarlo a Mosca a parlare con Putin. Di danni ne ha già fatti molti, nel suo penultimo appuntamento con il capo del Cremlino accettò di avere un interprete proposto dall’amministrazione russa e non si premurò di portarne uno dagli Stati Uniti. E’ un errore che un esperto negoziatore non farebbe mai e di cui lo stesso Witkoff è caduto vittima, riportando in modo sbagliato alcuni punti importanti dei colloqui avuti con Putin. L’immobiliarista ha preso il posto di Keith Kellogg, il generale che era stato nominato inviato speciale per la Russia e per l’Ucraina ma, non essendo amato dai russi, ha confinato il suo ruolo a Kyiv. Ai russi invece Witkoff piace, anche per la sua inesperienza.

Quando mette piede in Russia viene portato a spasso per San Pietroburgo o Mosca, viene messo di fronte alle ricchezze russe, a pranzi abbondanti, gli vengono consegnati regali da riportare a Washington come il ritratto per il presidente americano o l’onorificenza da consegnare a Juliane Gallina, la vicedirettrice della Cia, madre di Michael Gloss, giovane americano andato a combattere con l’esercito russo contro l’Ucraina. Witkoff, senza esitare, ha preso il dono dal capo di un esercito nemico e lo ha portato negli Stati Uniti. Ha riscosso molta simpatia tra i media russi, è stato accolto con tante attenzioni che prima di lui soltanto il giornalista Tucker Carlson aveva potuto vantare, quando andò a intervistare Putin e si fermò a lodare persino i carrelli dei supermercati russi. Nell’ultima visita di Witkoff a Mosca, i giornali  rimasero colpiti dalla colazione di Witkoff: un enorme cheburek ripieno di carne di agnello. L’inviato speciale lo mangiò con i guanti per non sporcarsi prima dell’incontro con Putin.

 

 

Kirill Dmitriev (foto ANSA)

                 

Kirill Dmitriev, capo del Fondo russo per gli investimenti all’estero

E’ un economista nato a Kyiv e trasferitosi negli Stati Uniti a studiare. Venne introdotto a Putin da una delle sue figlie e il presidente russo iniziò presto a fidarsi. Dmitriev sa parlare e comportarsi come un americano, sa anche trattare di affari come un americano e infatti è la guida di Witkoff quando va in Russia, ed è stato il primo russo sanzionato a mettere piede sul territorio americano. Da gennaio, Dmitriev ha iniziato una campagna di comunicazione molto propositiva, esaltando ogni mossa del presidente americano Donald Trump, lodando le sue scelte e la sua volontà di impegnarsi per la pace. Nessuno in Russia ha riso per le sparate di Trump, quando prometteva di risolvere la guerra in ventiquattro ore o cento giorni, gli hanno dato credito e Dmitriev era il capofila di questa fiducia. Non si è scomposto neppure quando il presidente americano ha iniziato a dare a Putin del matto, a spostare da Zelensky al capo del Cremlino la sua frustrazione: Dmitriev ha continuato, metodico, ha elencare le possibilità d’investimento, primo tra tutte l’Artico, promettendo l’inizio di un nuovo secolo russo-americano fatto di pace e affari. Durante l’ultima visita di Witkoff a Mosca, Dmitriev lo ha condotto a vedere un albergo che potrebbe diventare la prossima Trump Tower: sembra leggere nella mente di Trump e della sua Amministrazione. 

 

 

Sergei Lavrov (foto ANSA)

              

Sergei Lavrov, ministro degli Esteri russo 

“Putin non parla neppure con noi, parla direttamente con Caterina II, con Pietro il Grande”, disse una volta Lavrov del capo del Cremlino. Scherzava, ma non troppo. Con la battuta voleva far capire che i piani del presidente russo non sempre vengono comunicati ai suoi più stretti collaboratori e per questo, a volte, anche a un ministro degli Esteri non è dato prevedere cosa abbia in testa Putin. Lavrov è ministro degli Esteri dal 2004, ormai un dinosauro del putinismo, una colonna. Alle sue spalle ha una lunga carriera diplomatica, è stato anche ambasciatore russo presso le Nazioni Unite. Ormai Lavrov è a capo del ministero che si occupa anche della propaganda del Cremlino, che ha come portavoce Maria Zakharova.

Dopo il 2022, il ministro venne messo per un po’ in ghiacciaia, nessuno gli tolse il suo ruolo, ma si preferì allontanarlo dalle dichiarazioni pubbliche quando, durante un’intervista a Rete 4, disse “mi potrei sbagliare, ma se ricordo bene, Hitler aveva sangue ebreo come Zelensky”. Intervenne Putin in persona per scusarsi. Lavrov è a tutti gli effetti un esperto di diplomazia, ed è stato il perno della strategia del Cremlino di ingabbiare gli occidentali in negoziati sfiancanti, senza fine, portati avanti soltanto per il gusto di negoziare, per l’illusione della trattativa senza produrre nessun risultato. Lavrov si è specializzato in questa pratica per anni, ha avuto successo, sarà in Alaska e starà a lui interfacciarsi con uno dei più preparati per l’incontro del 15 agosto: il segretario di stato Marco Rubio. 

 

 

Marco Rubio (foto ANSA)

             

Marco Rubio, segretario di stato e consigliere per la sicurezza nazionale ad interim

Figlio di immigrati cubani, volto dei neocon americani che nel 2016 avrebbero dovuto arginare o provare a fermare l’ondata Maga di Donald Trump, Marco Rubio oggi è irriconoscibile. Fino a pochi mesi fa, quando è diventato il segretario di stato con meno poteri forse della storia, Rubio era considerato un falco reaganiano, molto preciso sul ruolo che secondo lui la democrazia americana avrebbe dovuto avere nel mondo contro i regimi: la Cina prima di tutto, e poi la Russia, l’Iran, la Corea del nord, e certamente anche Cuba – sua ossessione personale legata alle origini della sua famiglia. Da capo della diplomazia dell’Amministrazione Trump, però, Rubio non ha avuto alcun ruolo in nessuno dei tavoli aperti dal presidente. Il 1° maggio scorso ha preso anche la carica ad interim di consigliere per la Sicurezza nazionale, dopo il licenziamento di Michael Waltz (ufficialmente per la vicenda della chat Signal, ufficiosamente per la sua capacità di agire senza chiedere il permesso all’inquilino della Casa Bianca): anche in quel ruolo, di solito considerato più operativo, Rubio è stato messo in panchina. Si dice spesso che abbia imparato a parlare lo spagnolo prima dell’inglese, e da primo segretario di stato ispanico ha fatto il suo primo viaggio all’estero a Panama, per evitare che le mani cinesi sullo Stretto si allargassero, e poi si è fermato lì.

A fine giugno ha negoziato l’accordo di pace tra la Repubblica democratica del Congo e il Ruanda di cui, ahimè, si è parlato poco sui media internazionali. Sulla Russia di lui si ricordano, sin da febbraio, le dichiarazioni su un imminente vertice fra il presidente Trump e Putin – aveva ragione, ma con qualche mese di anticipo. E pensare che è la stessa persona che dieci anni fa, mentre faceva campagna per la candidatura repubblicana contro Trump, diceva: “Non appena entrerò in carica, agirò rapidamente per aumentare la pressione su Mosca. Sotto la mia amministrazione, non ci saranno richieste di incontri con Vladimir Putin. Sarà trattato per quello che è: un gangster e un delinquente”. Ha già incontrato Lavrov a febbraio in Arabia Saudita. Forse si sono chiariti

 

 

Yuri Ushakov (foto ANSA)

         

Yuri Ushakov, consigliere per la politica estera del Cremlino

Tra molti dei collaboratori di Putin, Ushakov è tra quelli che sembrano rimasti sempre al loro posto, a parte qualche parentesi. E’ stato un diplomatico prima sovietico e poi russo e per diverso tempo ha anche ricoperto la carica di ambasciatore russo negli Stati Uniti. Era stato Boris Eltsin a nominarlo e Putin non lo ha mai rimosso. Rimase a Washington fino a quando Dmitri Medvedev decise di sostituirlo, ma nella storia del putinismo, Ushakov è sempre rimasto e lo si ritrova in ogni episodio tragico della storia del paese: dal massacro nella scuola di Beslan alla guerra in Ucraina, quando fu tra i funzionari mandati a mentire davanti alle telecamere per dire che la Russia non stava pianificando nessuna invasione. E’ fedele a Putin, ma non si tratta soltanto di fedeltà perché Ushakov condivide i progetti del capo del Cremlino. E’ in diplomazia da sempre, sa trattare con gli americani e con gli europei e a lui è stato lasciato il compito di dare al mondo informazioni sui negoziati tra Russia e Stati Uniti. Ushakov ha confermato che l’incontro si sarebbe tenuto in Alaska e ha commentato che si tratta di un viaggio semplice per Putin che dovrà soltanto attraversare lo Stretto di Bering. E’ probabile che avrà accesso alla stanza in cui si siederanno i due presidenti. 

 

 

 

Sergei Kirienko (foto ANSA)

    


Sergei Kirienko, organizzatore dell’occupazione in Ucraina

Non ha un ruolo diplomatico e non sarà in Alaska, ma Kirienko sa tutto dei progetti di Putin, li ha resi possibili. Dopo che Mosca occupa un pezzo di territorio in Ucraina, arriva Kirienko, con il compito di rendere l’occupazione non soltanto una questione militare, ma anche mentale, governativa, tecnica. Ha organizzato i referendum nei territori occupati, si è incaricato della propaganda, della gestione di internet, della telefonia, del programma scolastico. Aveva ambizioni politiche e per un breve periodo della storia russa, all’età di trentacinque anni, divenne primo ministro. Nessuno lo conosceva, era considerato un giovane riformista, gli attribuirono il nomignolo di Kinder Sorpresa. Poco dopo apparve Vladimir Putin e Kirienko, molto attaccato al potere, non cercò di rivaleggiare troppo a lungo con il promesso presidente. Anzi ne divenne una spalla, un consigliere, tanto da ricoprire ruoli di rilievo, passando da un settore all’altro della vita politica, economica e amministrativa russa. Se Lavrov non sa cosa abbia in mente del capo del Cremlino, probabilmente Kirienko sta già lavorando al prossimo progetto di Putin.

 

 

Mike Dunleavy (foto Getty)

             

Mike Dunleavy, governatore dell’Alaska

L’Alaska è il luogo più adatto per l’incontro, ha detto il governatore del “grande stato” poco dopo l’annuncio sul social Truth di Donald Trump. “Per secoli, l’Alaska è stata un ponte tra le nazioni e oggi rimaniamo una porta d’accesso per la diplomazia, il commercio e la sicurezza in una delle regioni più critiche del mondo. Il mondo ci guarderà e l’Alaska è pronta a ospitare questo incontro storico”. Dunleavy è repubblicano, molto fedele a Trump, in passato ha già lodato i suoi “deal”: a giugno si è congratulato con il presidente per aver fatto finire la guerra dei dodici giorni tra Israele e Iran lo scorso giugno e per aver bombardato i siti nucleari iraniani. Ma il suo approccio rimane “America First”, anzi, “Alaska first”: pochi giorni fa ha pubblicato un editoriale su Fox News dal titolo: “Russia e Cina stanno cercando di prendere il controllo dell’Artico. Non possiamo permettergli di riuscirci”. Secondo  Dunleavy, Trump sta dimostrando che l’Alaska, nella posizione “più strategica al mondo”, con appena tre chilometri che la separano dalla Russia, è una priorità assoluta, e  i suoi sforzi per espandere la presenza statunitense nella regione artica orientale, in particolare nei pressi della Groenlandia, ne sono la prova.

 

 

J. D. Vance (foto ANSA)

     

 
J. D. Vance, vicepresidente degli Stati Uniti

La sua biografia ufficiale sul sito della Casa Bianca è degna di un romanziere di best seller estivi da autogrill: “Il vicepresidente J. D. Vance è nato e cresciuto a Middletown, in Ohio”, si legge, “una città americana un tempo fiorente grazie all’industria manifatturiera, dove gli abitanti potevano vivere serenamente una vita da classe media con un solo stipendio. Col tempo, molti di quei buoni posti di lavoro sono scomparsi, e la famiglia di JD ha sofferto le conseguenze, come tante altre”. E’ l’inizio di “Pastorale americana”, il romanzo autobiografico che ha dato la notorietà al J. D. scrittore, prima che diventasse il vicepresidente più vittima dei meme su internet, oltre che il più esplicito dell’Amministrazione Trump quando si tratta di rendere complicate le relazioni con gli europei. Classe 1984, di lui si parla spesso come di un uomo che è stato forgiato dall’infanzia difficile, e che per questo ha trovato pace soltanto nel corpo dei Marine, dov’è entrato a vent’anni e dove ha lavorato come soldato giornalista nel 2nd Marine Aircraft Wing, fino a quando dieci anni dopo non si è laureato in Legge e ha iniziato a lavorare con il senatore repubblicano John Cornyn, fino a quando il 3 gennaio del 2023 ha prestato a sua volta giuramento al Senato come membro del 118° Congresso. Da grande critico di Trump, che una volta ha paragonato a Hitler, è finito per essere il suo candidato vicepresidente non tanto per scelta del tycoon ma di chi sosteneva la sua campagna elettorale. Da vice un po’ a sorpresa, Vance avrebbe dovuto essere il volto dei Millennial nella nuova Amministrazione Trump, ma – come molti Millennial – è finito per essere il giovane-vecchio della Casa Bianca.

Sin dallo scorso venti gennaio, con l’inaugurazione del mandato, sono poche le iniziative di politica estera memorabili che lo riguardano: le chat su Signal contro gli europei scrocconi, un discorso alla Conferenza di Monaco sul tramonto dell’Europa, l’imboscata contro Zelensky nello Studio Ovale, l’incontro con Bergoglio a sorpresa, un giorno prima della sua morte a Roma. Vance parla solo l’inglese ed è uno a cui a quanto pare piacciono le vacanze: in Italia, certo, ma da giorni sui media americani si parla di quante ferie faccia. A Londra per parlare di Ucraina e Russia, si è poi fermato qualche giorno con la famiglia nella zona nel sud-ovest dell'Inghilterra. Il 2 agosto scorso, per il suo compleanno, aveva fatto alzare dalle autorità il livello di un piccolo fiume dell’Ohio per fare una gita in kayak con la famiglia, che neanche un mese fa aveva portato in California ed era stata chiusa Disneyland per la loro visita (“E’ stato molto fico”, ha detto Vance a un podcast). Nonostante la moglie Usha sia di origini indiane, Vance ha un’idea molto chiara degli immigrati, specialmente quelli di Springfield: è stato lui, prima di Trump, a rilanciare la notizia di cani e gatti mangiati dagli haitiani. Non ha una diretta controparte nella gerarchia russa, ed è tra i 50 membri del Congresso americano a cui il Cremlino ha vietato le visite in Russia. Nel 2022 aveva detto a Steve Bannon: “Non mi interessa un granché cosa succederà all’Ucraina in un modo o nell’altro”.