la strategia

Ferragosto a Pechino. A cosa serve la campagna pro turismo di Xi

Giulia Pompili

Volare in Cina è semplicissimo (ed economico). Tornare un po’ meno. L’intensificazione del turismo straniero serve alla leadership cinese per due motivi: da un lato provare ad aumentare i consumi interni, dall’altro c’è la propaganda

Bastano poco più di cinquecento euro per un volo andata e ritorno con le compagnie aeree statali dall’Europa verso uno degli scali internazionali della Repubblica popolare cinese. Il visto? Non serve più, grazie a una politica di esenzione voluta e accelerata negli ultimi mesi da Pechino e che riguarda i cittadini della maggior parte dei paesi occidentali. L’intensificazione del turismo straniero serve alla leadership cinese per due motivi: da un lato provare ad aumentare i consumi interni, con un effetto simile a quello avvenuto in Giappone, dove il flusso turistico ha portato nuova linfa vitale all’economia stagnante. Dall’altro c’è la propaganda: celebrare la Cina come destinazione di milioni di persone è una spinta  alla narrazione del grande paese “dalla tradizione millenaria”, dove tutti vogliono andare perché modello di progresso ed efficienza. Una propaganda che può sembrare  innocua, ma non lo è.  

 


Solo che questa promozione del turismo in Cina – che sfrutta anche gli influencer occidentali, con programmi sistematici come vacanze di dieci giorni all inclusive in cambio di immagini che mostrino la “vera Cina” ai loro follower – è in contraddizione con una serie di misure che la leadership cinese ha preso nei confronti dei propri cittadini. Regole che negli ultimi mesi sembrano essere diventate ancora più restrittive, e che riguardano ciò che il Partito comunista cinese considera sicurezza nazionale. Dopo mesi in cui anche alcune fonti del Foglio parlavano di una stretta sul rilascio dei passaporti anche per i dipendenti pubblici di basso livello in Cina, due giorni fa è stato il New York Times, con una lunga inchiesta, a confermare che “ad alcuni insegnanti di scuola materna, medici e persino appaltatori governativi e dipendenti di imprese statali è stato ordinato di consegnare i propri passaporti”: per paura di contatti con l’esterno, la Cina li chiude dentro ai propri confini, prigionieri. “In molte città”, scrive la corrispondente da Pechino Vivian Wang, “i viaggi all’estero dei dipendenti pubblici, anche per motivi personali, richiedono un’approvazione. I viaggi di lavoro all’estero per ‘ricerca, scambio e studio ordinari’ sono stati vietati. E nella maggior parte delle province, coloro che hanno studiato all’estero sono ora esclusi da determinate cariche pubbliche”.

Ma la sicurezza nazionale, nella versione del Partito comunista cinese, si applica anche agli stranieri che visitano la Cina, e questo è il tema più allarmante. Michael Kovrig è l’ex diplomatico canadese che è stato quasi tre anni in stato di arresto in Cina come merce di scambio, quando la direttrice finanziaria di Huawei, Meng Wanzhou, era stata arrestata dal Canada.

 

Qualche giorno fa Kovrig ha scritto su The Wire China un compendio degli ultimi episodi di arresti arbitrari di stranieri – a partire dal dipendente del dipartimento del Commercio americano durante un viaggio personale in Cina, a cui era stato imposto un divieto di espatrio, al dirigente giapponese della Astellas Pharma in carcere per spionaggio – e dei rischi che ci si assume ogni volta che si visita il paese guidato da Xi Jinping. “Viaggiare in Cina oggi comporta la valutazione di due rischi”, scrive Kovrig. “Il primo è che l’apparato di sicurezza statale, incentivato a esagerare, possa ritenere sospette le tue attività passate o presenti; il secondo è che, mentre ti trovi lì, il tuo governo o la tua organizzazione possano fare qualcosa che offenda il Partito comunista cinese – incluso, ma non limitato a, la detenzione legittima di un dirigente, studioso o agente dell’intelligence cinese”. Il tuo profilo, se considerato critico, aumenta le probabilità che tu possa essere preso di mira nel secondo caso. E non conta solo ciò che tu abbia intenzione di fare in Cina – visitare la Muraglia cinese, passeggiare a piazza Tiananmen, per esempio – “ma anche come i soggetti del Partito-Stato ti percepiscono e percepiscono le tue affiliazioni, o come decidano arbitrariamente di rappresentarti, per scopi personali, burocratici o politici”. Negli ultimi anni la leadership di Xi Jinping ha enormemente ampliato il concetto di sicurezza nazionale, e secondo le modifiche alla legge sul controspionaggio di due anni fa oggi “scattare foto, cercare informazioni online, pubblicare post sui social media al di fuori della Cina o intrattenere conversazioni con cittadini della Repubblica popolare cinese potrebbero essere considerati atti di spionaggio”. Insomma, andare in Cina è sempre più facile, grazie agli incentivi del Partito. Spesso, però, uscirne rischia di essere particolarmente complicato.  A oggi, sia il governo americano sia quello canadese raccomandano ai propri cittadini di “prestare la massima attenzione in Cina a causa del rischio di applicazione arbitraria delle leggi locali”.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.