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ESCLUSIVA. Le memorie con cui Francia, Germania e Bruxelles hanno sostenuto l'Italia nella battaglia contro la Corte

I due paesi e la Commissione europea hanno appoggiato una tesi di fondo che è la stessa alla base della scelta italiana: cioè che la valutazione sulla sicurezza di un paese terzo non può essere trasformata in una decisione giurisdizionale automatica. Il documento esclusivo

La sentenza con cui la Corte di giustizia dell’Unione europea ha affondato l’impianto italiano sui cosiddetti “paesi sicuri” non è solo una sconfessione del decreto legge Meloni del 2024. E’, se si guarda con onestà intellettuale al dibattito che ha preceduto la decisione, una sconfessione di una linea condivisa da gran parte dell’Europa politica. O, per essere più precisi: la sentenza della Corte è uno schiaffo non soltanto al governo italiano, ma anche al governo tedesco, a quello francese e alla Commissione europea. Perché? Perché, nei mesi scorsi, questi tre attori istituzionali hanno presentato alla Corte memorie scritte in difesa del principio – oggi cassato – secondo cui uno stato può esercitare un proprio margine discrezionale nel definire i paesi terzi come sicuri, anche con atto legislativo, anche senza specificare pubblicamente tutte le fonti informative utilizzate, e anche prevedendo – caso per caso – alcune eccezioni. Il Foglio ha visionato queste memorie. Gli spunti interessanti sono molti. E’ bene dirlo subito: né la Germania, né la Francia, né la Commissione europea hanno difeso le modalità italiane in quanto tali. Ma hanno sostenuto una tesi di fondo che è la stessa alla base della scelta italiana: cioè che la valutazione sulla sicurezza di un paese terzo non può essere trasformata in una decisione giurisdizionale automatica

Deve restare una prerogativa politica, certo fondata su elementi oggettivi, ma inscritta nell’ambito della discrezionalità dello stato. Ecco perché la sentenza della Corte, in nome di un’estensione ambiziosa del principio del contraddittorio, rischia di compromettere – ben oltre l’Italia – la capacità degli stati di difendere le proprie politiche migratorie da un’ingerenza giudiziaria pervasiva. La memoria presentata dalla Commissione europea è chiara: nulla nella direttiva 2013/32 impedisce che la designazione dei paesi sicuri sia contenuta in un atto legislativo, come avvenuto in Italia. Anzi, l’articolo 37 parla di “normativa”, non di atto amministrativo, e la Commissione aggiunge che “la direttiva non osta all’adozione da parte degli stati membri di atti legislativi con cui vengono designati i paesi di origine sicuri”. Non solo: secondo la Commissione, il richiedente asilo e il giudice devono poter accedere alle fonti specifiche utilizzate per la designazione, ma ciò non implica che l’atto stesso debba contenere l’elenco delle fonti. E’ una distinzione cruciale, che la Corte ha ignorato. La Francia, nella sua memoria, ha difeso la possibilità di designare un paese come sicuro “con l’eccezione di talune categorie di persone chiaramente definite”. E’ un punto centrale anche questo, perché proprio questa flessibilità – sostenuta anche dal regolamento europeo del 2024 che entrerà in vigore nel 2026 – è stata negata dalla Corte, la quale ha preteso che la sicurezza valga per tutte le categorie e tutto il territorio nazionale. La posizione francese, insomma, è opposta a quella accolta dalla Corte: Parigi difende l’idea che si possa designare un paese come generalmente sicuro pur ammettendo che vi siano soggetti vulnerabili per i quali ciò non vale. Ancora più esplicita è la Germania, che – memore anche della propria prassi legislativa – ha scritto che “un legislatore nazionale può designare direttamente, con un atto legislativo primario, un paese terzo come paese di origine sicuro”.

Berlino va oltre: dice che tale designazione “deve essere motivata”, ma che è compito del giudice nazionale valutare se, nel caso concreto, il paese sia effettivamente sicuro per la persona coinvolta. Nessuna censura all’atto legislativo in sé. La sintonia tra i tre è evidente. Francia e Commissione sottolineano il rischio di negare agli stati un margine di valutazione ragionevole. La Germania rivendica la possibilità di indicare i paesi sicuri per legge, nel rispetto del principio del contraddittorio e della tutela giurisdizionale effettiva. E’ una visione che la Corte oggi ha respinto, optando per un’interpretazione che, in nome della tutela dei singoli casi, svuota il concetto di “paese sicuro” di ogni efficacia pratica. In altre parole: la Corte ha detto agli stati che non possono più presupporre nulla. Devono esaminare ogni domanda senza potersi basare su una griglia di partenza più rapida per chi proviene da paesi ragionevolmente stabili. E lo ha fatto contro il parere – ripetiamolo – non dell’Italia populista, ma della Francia di Macron, della Germania di Scholz e della Commissione von der Leyen. Questa decisione non cambierà soltanto la legge italiana. Cambierà la cornice giuridica entro cui tutti gli stati europei dovranno muoversi, quando vorranno adottare strumenti di semplificazione delle procedure. La giurisprudenza ha parlato. Ma resta da capire se la politica vorrà subire o reagire. Perché il punto vero, alla fine, è uno: chi ha il diritto di decidere se un paese è sicuro o meno: un governo eletto o un magistrato in Lussemburgo?

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