
cremlino vittimista
L'invenzione della russofobia
È stata creata come una malattia contagiosa che proviene dall'occidente e oggi serve a Putin per far sentire i russi vittime incomprese e giustificare le guerre
La russofobia è malattia e farmaco per la politica di Mosca che, sul sito del ministero degli Esteri, ha inserito una sezione dedicata alle dichiarazioni di presidenti, premier, ministri occidentali additate come “esempi di manifestazioni di russofobia”. Fra le parole di politici italiani, sono state presentate come esempi russofobi le dichiarazioni del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, del ministro degli Esteri Antonio Tajani e del ministro della Difesa Guido Crosetto. Il termine “russofobia” è antico, è presente nella cultura russa da secoli e con il tempo è stato preso, riformulato, arricchito. Oggi, il compito di identificare chi è malato di russofobia spetta al ministero degli Esteri della Russia e spesso alla sua portavoce, Maria Zakharova, che già a febbraio nelle sue mani accolse una raccolta di firme per una petizione contro Mattarella. L’elenco era talmente posticcio da includere nomi inventati, era stato redatto da Vincenzo Lorusso, autore del canale telegram “Donbass Italia” e del libro dal titolo, per l’appunto, “De russophobia”.
Tutto ciò che è contro la Russia è “russofobico”. Gli ucraini a un certo punto della loro storia, quando hanno scelto di volersi avvicinare all’occidente, si sono ammalati di russofobia, una malattia infettiva che alla fine li ha spinti, nel racconto di Mosca, a una politica violenta contro quelle che il Cremlino definisce minoranze russofone. Non è Vladimir Putin che ha iniziato la guerra contro Kyiv prima con un’invasione nella parte orientale del paese, nell’area che viene chiamata Donbas, poi con l’aggressione totale contro tutto il territorio ucraino. E’ l’Ucraina che è diventata russofoba, pericolosa, si è trasformata in un’arma dell’occidente puntata contro i confini di Mosca: è stato in quel momento che il Cremlino si è trovato costretto ad attaccare. Tutto quello che Mosca fa è per non soccombere. Putin attacca, aggredisce, invade e mentre lo fa dice ai russi di indossare i panni delle vittime. E’ un racconto della guerra capovolto, in cui l’invasione viene presentata come un sacrificio necessario ed è nel nome di questo sacrificio che i soldati russi, soprattutto provenienti dalle zone più povere del paese, vengono mandati a combattere per rosicchiare con estrema lentezza e a un prezzo di vite umane molto alto centimetro dopo centimetro dell’Ucraina.
Putin ha proiettato la Russia verso il passato e in questa marcia verso la storia ha recuperato idee, armi, rivendicazioni. Anche la russofobia è un ritrovamento di questo incedere all’indietro, ha una sua origine scritta che i russi identificano in una lettera che il poeta e diplomatico Fëdor Tjutcev scrisse a sua sorella per raccontare allarmato della “russofobia di alcuni russi” che nel contestare la loro patria si dicevano degli ammiratori delle aperture occidentali sui diritti. Per Tjutcev il fenomeno riguardava però i russi, la categoria di quelli occidentalizzati che parlavano di quanto la Russia fosse arretrata e corrotta e la sognavano invece europeizzata. Un termine gettato lì, in una lettera scritta in francese tra fratelli, coniato in una lingua che non era il russo ma per contestare il sentimento poco patriottico dei russi occidentalisti è sopravvissuto sottopelle nella storia del paese: da russophobie (come lo scrisse Tjutcev) si trasformò in rusofobja quando i russi iniziarono a non disdegnare più la loro lingua. La parola, ormai trasformata in malattia, nel periodo sovietico serviva a giustificare le critiche dell’occidente, le differenze tra i due blocchi, le accuse di crimini ritenute ingiuste. Nella russofobia si può racchiudere un intero popolo, farlo sentire speciale (“La Russia non si può capire, si può soltanto amare”, è uno dei versi più famosi di Tjutcev), incompreso, vittima e Putin con i suoi funzionari ha riesumato la bolla, in cui i russi dovevano sentire tutta l’ingiustizia di essere gli abitanti di un impero collassato. Nel 2012, quando Mosca aveva già avuto le sue guerre in Cecenia, il conflitto in Georgia e badava a tenersi stretta l’Ucraina, lo storico russo Oleg Nemensky scrisse un saggio: “Russofobia come ideologia”, un tentativo di presentare le prove della malattia diffusa in occidente e pronta a infettare i paesi confinanti con Mosca.
Per Tjutcev erano i russi a essere malati di russofobia, ma comunque il virus veniva dall’esterno. Dentro la Russia la russofobia è invece un farmaco, usato per alleviare le responsabilità della guerra, per generare un senso di persecuzione che aiuta a far credere che Mosca non ha mai colpe, se attacca, sono gli altri che l’hanno costretta.