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l'analisi

Tutte le volte che il Wall Street Journal ha ignorato l'ira di Trump

Matteo Muzio

Niente endorsement, critiche sui dazi e nuovi scoop imbarazzanti: il Wsj sfida il presidente americano. Una linea editoriale indipendente che incrina l’unità del fronte conservatore senza arretrare di un passo

Risaliamo allo scorso novembre, periodo di endorsement dei maggiori quotidiani americani. Il Wall Street Journal non lo pubblica, non ne fa uno dai tempi in cui sostenne il repubblicano Herbert Hoover alle presidenziali del 1928. Nemmeno stavolta lo ha fatto, ma ha scritto due editoriali: nel primo condannava l’impreparazione di Kamala Harris e metteva in guardia dal suo “estremismo di sinistra”. Il giorno dopo, arrivava un più sfumato profilo di Trump, dove si minimizzava la paura di un nuovo “fascismo” e sulle possibili politiche economiche troppo “pro sindacali” sulla spinta del populismo post liberale del candidato vicepresidente J. D. Vance: anche se Trump non è perfetto, era preferibile a un “quarto mandato di Obama”. Ed eccoci all’oggi alla causa fatta da Donald Trump al Wall Street Journal in seguito alla pubblicazione di uno scoop su un biglietto d’auguri del presidente a Jeffrey Epstein, il finanziere condannato per pedofilia e suicidatosi in carcere nel 2019. Trump dice che quel documento è falso, aveva chiamato il proprietario del Wall Street Journal,  Rupert Murdoch, per evitarne la pubblicazione, senza risultati. 


Le frizioni tra il presidente e il magnate novantaquattrenne di origine australiana hanno radici più antiche: nel 2016 Murdoch aveva la posizione che si potrebbe riassumere in “tutti tranne Trump”, ma poi disse: “Sarebbe da pazzi non andare uniti dietro il candidato repubblicano”.  E allora cominciò una specie di strategia dei due forni: critiche mescolate ad apprezzamenti per i risultati concreti della presidenza, elogi sperticati sul tabloid New York Post e  sulla rete televisiva Fox News, dove il tribuno televisivo Tucker Carlson spingeva sempre più a destra le posizioni degli ascoltatori, ogni sera alle 20. Questo strano ménage si è spezzato alle elezioni del 2020 quando, in seguito a un breve periodo di incertezza, fu proprio la Fox a dire che Joe Biden aveva vinto l’Arizona. Durante la presidenza Biden, poi, è continuata la ricerca di un’alternativa a Trump. Sembrava essersi trovata in Ron DeSantis alle elezioni di midterm del 2022: il giovane governatore della Florida pareva un Trump più efficiente e ripulito dai suoi difetti. Gli elettori però hanno continuato a preferirgli l’originale. Ed ecco quindi che Murdoch fa buon viso a cattivo gioco: stavolta però gli elogi per i provvedimenti economici stentano ad arrivare. Anzi, è proprio il Wall Street Journal che, all’indomani del cosiddetto “liberation day” del 2 aprile a definire la guerra dei dazi lanciata da Donald Trump contro tutti i paesi del mondo come la “più stupida di sempre”. Quando la Corte del commercio internazionale ha dato torto alla Casa Bianca sul tema dei dazi, scrivendo nel verdetto che questo potere spetterebbe al Congresso, ancora una volta la sezione degli editoriali e delle opinioni del quotidiano, quella più conservatrice, diretta da Paul Gigot, che è anche commentatore di Fox News, dice: il tribunale ha “rimesso al suo posto” il presidente. L’eccessivo dirigismo di una presidenza protezionista viene spesso attaccato negli editoriali e Trump si è infastidito e ha trovato un nomignolo anche per il Wall Street Journal, che è diventato: il “Woke Street Journal”.

Semplicemente, non era tollerabile avere critiche da destra a una politica economica che si distacca molto dal conservatorismo classico espresso sulle pagine del giornale, con linea adamantinamente liberale, anche quando si va dall’altra parte della barricata. Per esempio, sul definanziamento della radio pubblica Npr e lo smantellamento del dipartimento dell’Istruzione, il giornale è dalla parte del presidente. Non lo è però quando devia da questa linea per meri interessi privatistici. E anche di fronte alla causa ad personam, Murdoch non intende deflettere da questa posizione che rende la testata di sua proprietà la più autorevole nel campo conservatore. E che continua a fare scoop sul tema della presidenza Trump, come la rivelazione sul fatto che sia stato il segretario al Tesoro Scott Bessent a far desistere il suo boss dal licenziare Jerome Powell dalla guida della Federal Reserve attraverso una spiegazione molto elementare riguardante l’inflazione che potrebbe esplodere. Certo non una mossa distensiva, ma il giornale in questo modo salda la sua fiera indipendenza in un momento in cui grandi media come la Cbs fanno il contrario. 

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