
l'america e il medio oriente
Trump e le intese stanche in medio oriente
Dagli houthi a Damasco, passando per Gaza e arrivando all'Iran. A che punto sono gli accordi promessi dal presidente americano
Il comandante yemenita Tareq Saleh è l’uomo che parla con gli Stati Uniti e cerca, assieme all’esercito americano, di contrastare il potere degli houthi nello Yemen. Saleh è il nipote del primo presidente dello Yemen unificato, suo padre è stato capo di stato maggiore e a lui tocca il compito di guidare la Resistenza nazionale yemenita. E’ un militare e gli houthi scatenarono una caccia all’uomo per scovarlo e ucciderlo: Tareq Saleh riuscì sempre a sfuggire e oggi, tra i suoi compiti, c’è anche quello di depotenziare gli houthi, tenere sotto osservazione il traffico di armi dirette al gruppo e bloccarlo. Nei giorni scorsi un carico da oltre 750 tonnellate era diretto verso il porto di Hodeida controllato dagli houthi. Tareq Saleh lo ha bloccato e sequestrato. Il carico comprendeva munizioni, centinaia di missili da crociera, antinave, antiaerei, sensori, motori per droni, sistemi radar, apparecchi per le comunicazioni. Gli uomini della Resistenza nazionale yemenita, che hanno preso in consegna questo arsenale trasportato via mare, hanno trovato tra le armi dei manuali di istruzioni in farsi e alcuni sigilli di un’azienda affiliata al ministero della Difesa iraniano, sotto sanzioni americane. Gli houthi sono armati dalla Repubblica islamica dell’Iran, fanno parte del sedicente Asse della resistenza, l’insieme dei gruppi armati che il regime di Teheran ha nutrito per circondare Israele e puntargli contro armi da tutti i lati. Dell’Asse della resistenza, gli houthi sono il gruppo che gode di miglior salute, ma non sono mai stati al centro del progetto iraniano, che aveva negli Hezbollah libanesi i loro pupilli. Però Hezbollah è distrutto, Hamas nella Striscia di Gaza è impegnato nella guerriglia contro i soldati israeliani ed è l’ombra del gruppo che è stato in grado di invadere, torturare, uccidere e rapire gli israeliani il 7 ottobre. In Siria, l’Iran può contare su milizie sparute. In Iraq, i gruppi sciiti rimangono silenti. Dopo la guerra dei Dodici giorni, Teheran non ha rinunciato ai suoi progetti: vuole ancora la Bomba e vuole ricostruire l’Anello di fuoco, il sistema di gruppi armati, attorno a Israele. Il progetto nucleare è stato ritardato dagli attacchi israeliani e americani e i primi dati lo stanno dimostrando. Il piano per ricominciare a nutrire i suoi gruppi armati è più semplice e per ora gli houthi sono i più ricettivi. Il presidente americano Donald Trump tempo fa aveva annunciato un accordo con gli houthi, dicendo di aver bloccato i loro attacchi contro le navi che transitano nel Mar Rosso. L’accordo non impegna gli houthi a non attaccare Israele, ma in generale era talmente fragile che gli houthi hanno continuato la loro campagna militare nel Mar Rosso. Ogni piano, progetto e accordo che l’Amministrazione Trump fa o vagheggia in medio oriente ormai si scontra con la realtà. I colloqui sul nucleare iraniano, puntualmente celebrati con grandi annunci, sono sfociati nella guerra dei Dodici giorni e l’Iran rifiuta, come rifiutava prima del conflitto, di stringere qualsiasi intesa con gli americani: la diplomazia si muove sottotraccia, ma senza garanzie.
La speranza di un’accelerazione negli accordi tra Israele e Siria si è schiantata con i massacri dei drusi di Suwayda. Gli scontri proseguono, il presidente autoproclamato Ahmad al Sharaa ha mandato le sue forze a riportare l’ordine: questa volta Israele lo ha lasciato fare concedendogli 48 ore. Mentre l’Amministrazione americana parla di far entrare la Siria negli Accordi di Abramo (il piano di normalizzazioni tra Israele e alcuni paesi arabi) in Israele più pragmaticamente si lavora a una serie di intese che vanno dal commercio all’assistenza sanitaria, si procede a passi piccolissimi.
Sulla guerra a Gaza, Trump e il suo inviato Witkoff hanno fatto molti annunci, frenati ogni volta dai rifiuti di Hamas, dai combattimenti e le morti sul campo di battaglia. Gli Stati Uniti sono iperattivi nel tentativo di trovare un accordo, ma non riescono a organizzare la pressione necessaria su Hamas affinché accetti di rilasciare tutti gli ostaggi (50 sono ancora prigionieri, vivi o morti): ieri gli egiziani, che lavorano come mediatori per ottenere l’accordo, hanno detto di essere stufi dei continui rifiuti del gruppo terroristico. Ieri il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha invitato il Papa in Israele, annunciando di essere “vicini a un accordo con Hamas”, dopo che il cardinale Pizzaballa era entrato nella Striscia assieme al patriarca greco-ortodosso di Gerusalemme Teofilo III per visitare la chiesa colpita dall’esercito israeliano e portare aiuti umanitari. Serve l’accordo a Gaza prima di riuscire a promuovere gli altri accordi ventilati da Trump con la promessa di rinnovare il medio oriente.