Un beduino sunnita vicino Suwayda (foto Getty)

La chiamata alle armi

Israele e Sharaa hanno un nemico in comune: il caos

Luca Gambardella

I beduini si riversano a Suwayda contro i drusi. Lo stato ebraico concede alle forze siriane di tornare nel sud

Un corpo senza vita è appeso a testa in giù all’arco dove campeggia la scritta in arabo “Juneinah vi dà il benvenuto”. I drusi hanno spostato il proprio quartier generale in questo villaggio vicino a Suwayda, nel sud della Siria, e il macabro segnale diretto ai beduini sunniti, contro cui combattono da giorni, è l’istantanea di un paese che non riesce a liberarsi dall’odio settario. Con il cinico realismo dei leader, Ahmad al Sharaa ha deciso di puntare la sua scommessa politica proprio su questa violenza indicibile che si muove da una parte e dall’altra. L’obiettivo è rimediare alla sua disastrosa campagna militare verso il sud, mettendo Israele davanti a un fatto compiuto: il caos non è nell’interesse di nessuno, nemmeno dello stato ebraico.

  

 

Le parole rivolte giovedì dal premier israeliano Benjamin Netanyahu –  “non permetteremo a nessuna forza militare di spingersi a sud di Damasco” – potevano essere la pietra tombale su ogni pretesa unitaria da parte di al Sharaa. Le forze governative si erano ritirate da Suwayda dopo la conclusione di un cessate il fuoco, una vittoria di Pirro, perché tutti si aspettavano la controffensiva dei drusi non appena l’ultimo soldato avesse lasciato la città. Ma dopo una telefonata col principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman, è arrivata la decisione del presidente siriano: lasciare che gli eventi facessero il loro corso. 

 

E così, al ritiro dei suoi uomini incalzati dai missili israeliani, gli scontri fra drusi e beduini sono ricominciati.  Video che mostrano crimini perpetrati da una parte e dall’altra  mostrano drusi e beduini seviziati e mutilati, tombe e corpi profanati, in una strage che ormai conta almeno 300 morti. A quel punto era solo questione di tempo prima che le tribù beduine sparse nel resto della Siria decidessero che spettasse a loro rimettere ordine a Suwayda per vendicare i sunniti massacrati dai drusi. Giovedì sera, con un comunicato inedito, ben 41 tribù hanno dichiarato la volontà di dirigersi verso sud per andare a combattere. Mai prima d’oggi si era registrato un coinvolgimento simile da parte di queste comunità, che rappresentano una percentuale minoritaria del paese e che in passato avevano giocato un ruolo secondario sulla scena politica siriana. Si tratta di tribù originarie della penisola arabica, giunte in Siria un paio di secoli fa per sfuggire al wahabismo che ormai stava prendendo piede. Un tempo nomadi e allevatori di capre e pecore, si stanziarono nella Badya, il deserto siriano che arriva a Palmira e Deir Ezzor. Se nel frattempo il termine “beduino” è diventato talvolta dispregiativo nel mondo arabo, molti di loro furono cooptati dal regime degli Assad e uno dei più crudeli ministri della Difesa, Fahd Jassim al Freij, era un beduino della tribù degli hadidi, una di quelle che in queste ore muovono su Suwayda. Insieme a loro, a combattere nel sud, ora ci sono anche gli hassana e i ruwalla, che hanno legami di sangue anche fuori dal paese, persino con la casa reale saudita.

  

 

Al Sharaa non ha fatto nulla per fermare le carovane di moto, pick-up e pullman provenienti da ogni angolo del paese, dal deserto di Deir Ezzor a Raqqa, da Homs a Hama e Aleppo, con mezzi stracolmi di miliziani in alcun modo inquadrati nelle Forze armate nazionali. Una volta giunti alle porte della città, gli scontri contro i drusi hanno raggiunto ulteriore veemenza finché, venerdì mattina, non è arrivato l’esito che Damasco si aspettava. Un funzionario del governo israeliano ha dichiarato che era stato concesso alle Forze armate siriane di tornare a Suwayda e ristabilire l’ordine entro 48 ore. A quel punto, colonne di uomini che stavano già rientrando a Damasco hanno fatto inversione a U e sono tornate a sud sebbene, almeno fino a venerdì sera, senza entrare in città.

  

 

Con i suoi bombardamenti su Suwayda, Netanyahu aveva dato l’impressione di potere imporre cosa fosse lecito fare e cosa no nel sud della Siria. Poi però sono arrivate le parole di Tammy Bruce, portavoce del dipartimento di stato americano, che ha negato qualsiasi via libera da parte degli Stati Uniti ai raid israeliani. E quando si è ritrovato a Suwayda una situazione ormai fuori controllo, nelle mani di gang ostili che non rispondono a nessuno, Netanyahu ha dovuto concedere che un intervento militare da parte di al Sharaa era necessario. Questo non si deve solamente all’intervento diplomatico di Tom Barrack, l’inviato speciale degli americani a Damasco, ma anche a una constatazione evidente: Israele non è interessato a una Siria divisa e caotica, come buona parte della retorica araba ripete. Al contrario, vorrebbe  Damasco capace di tenere a  freno i suoi uomini. Persino al Sharaa, che ha detto che “Israele vuole la dissoluzione della Siria”, non crede a questo assunto e ha scommesso sul caos di Suwayda per dare finalmente forma a quel patto che le trattative segrete intavolate in questi mesi con gli israeliani avevano raggiunto: concedere il sud alle forze governative siriane, in cambio della rimozione di ogni mezzo di artiglieria pesante. Un accordo che i missili israeliani lanciati nel sud e a Damasco avevano rischiato di affossare. Nell’attesa che i piani rispettivi si compiano, si apre un nuovo capitolo della battaglia di Suwayda, anche questo nel segno dei morti e delle violenze settarie, che senza pietà coinvolgono anche donne e bambini. 

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  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.