Un frame che mostra le bombe israeliane sul ministero della Difesa siriano (foto Getty) 

bombe sulla siria

Suwayda è un disastro per Sharaa, da solo sotto le bombe di Israele

Luca Gambardella

Il ministero della Difesa e il palazzo presidenziale di Damasco colpiti dai raid israeliani. I fallimenti della campagna militare contro i drusi

Qualunque sia la sorte di Suwayda, Ahmad al Sharaa vede davanti a sé lo spettro di una prima, cocente sconfitta. In Siria, la campagna militare contro i drusi del sud, lanciata domenica scorsa, porta con sé un costo altissimo, con danni inimmaginabili fino a qualche giorno fa. Il bombardamento israeliano su Damasco, che ha raso al suolo il ministero della Difesa, il fumo che ha coperto l’adiacente piazza degli Omayyadi, simbolo della rivoluzione siriana, e il raid che ha colpito il palazzo presidenziale costringendo Sharaa a ripararsi in un luogo protetto sono l’apice di più fallimenti. Non deve illudere il  cessate il fuoco concluso oggi con alcuni leader locali – il quarto in appena cinque mesi – che in teoria dovrebbe culminare con l’integrazione dei drusi nelle Forze armate nazionali. Dopo giorni di morti,  rapimenti e odio settario, è impossibile non tenere conto del sentimento di paura e rigetto che i residenti della città covano ormai nei confronti di Damasco. 

 

 

Quando alcune milizie, questa mattina, hanno sfilato nel centro della cittadina, gli abitanti che ancora non erano scappati da Suwayda sono rimasti asserragliati in casa per paura di fare la stessa fine degli alawiti, che lo scorso marzo sulla costa occidentale del paese sono stati massacrati dalle milizie di Sharaa. Viene da pensare, allora, che se la commissione ad hoc istituita dal governo per consegnare alla giustizia i responsabili degli abusi commessi a marzo avesse terminato in tempo le proprie indagini, forse si sarebbero fermati per tempo i responsabili di quelle violenze, evitando i crimini  commessi ora contro i drusi. Ad avvalorare questo sospetto è che molti degli uomini dispiegati da Sharaa contro gli alawiti a marzo, della brigata Liwa Talib, siano gli stessi oggi impegnati a Suwayda. 

 

 

Alla giustizia negata, agli abusi perpetrati su base settaria, si aggiunge il fallimento tattico. I drusi, storicamente abituati a combattere per difendere la propria autonomia, difficilmente torneranno a fidarsi delle forze di Damasco. Troppo sangue, troppi morti. Difficile ora per il governo sbandierare l’accordo raggiunto con due dei tre mashayakh al ’aql di Suwayda, ovvero le guide spirituali dei drusi. Certo, oggi Laith Balous e Yusuf Jerboaa hanno espresso la propria volontà di collaborare con lo stato centrale, di volere integrare i propri uomini in un esercito nazionale e di non volere l’aiuto di Israele, ma solo la fine delle violenze da parte delle forze di Damasco. Però dall’intesa resta fuori ancora una volta Hikmat al Hijri, il più filoisraeliano dei leader drusi, ex assadista a cui restano fedeli ex membri delle forze che un tempo erano del regime e che oggi, piuttosto che arrendersi e finire nelle mani di Sharaa, sono pronti a vendere cara la pelle. Con un comunicato molto duro, oggi al Hijri ha chiesto apertamente il sostegno di Israele – oltre che di Trump, dei sauditi e dei giordani – e ha denunciato il massacro perpetrato dalle forze di Damasco. “La maschera è caduta dal volto di questa gang di tiranni e oppressori”, ha detto il leader druso, che nel frattempo si è dato alla macchia. Le forze di Damasco gli danno la caccia e hanno preso il controllo della sua abitazione e del quartier generale di Qanawat, nella campagna di Suwayda. Se mai dovessero trovarlo, vivo o morto, lo sceicco sarebbe celebrato come un martire fra i tanti drusi che guardano con sospetto al governo islamista di Sharaa, per non parlare della reazione degli israeliani che sarebbe ancora più violenta.  

 

 

Sulle spalle del presidente siriano pesa la responsabilità di una vittoria sofferta, con perdite superiori persino a quelle registrate con l’avanzata che lo scorso dicembre ha liberato la Siria dalle forze del regime. Il fumo sollevato dalle bombe israeliane nel cuore della capitale copre anche le tante concessioni fatte dal governo siriano allo stato ebraico per ottemperare alle richieste di pace – e persino di normalizzazione – auspicate in questi mesi dal presidente americano Donald Trump. La fine degli attacchi contro il Golan occupato, l’arresto dei leader di Hezbollah e del Jihad islamico, la cacciata degli iraniani da parte dei nuovi governanti siriani passano in secondo piano davanti alle violenze perpetrate dalle milizie fuori controllo su cui poggia il potere di Sharaa. “Indagheremo”, promettono come un disco rotto le autorità di Damasco, ma ora che Assad non c’è più la semplice dichiarazione di intenti non basta più a un popolo fatto di minoranze etniche e religiose abituate da decenni a vivere le terrore.

 L’avanzata massiccia di uomini e mezzi, giunti nell’estremo sud del paese, muovendosi persino da Idlib, a nord, ha portato a un dispendio di forze all’inizio non calcolato e che lascia il dubbio su chi abbia illuso il presidente siriano che la conquista di Suwayda con l’uso della forza rappresentasse una vittoria politica, oltre che militare. Il basso profilo tenuto finora da due dei suoi principali sponsor, Turchia e Arabia Saudita, che non sono andati oltre una mera condanna dei bombardamenti israeliani su Damasco e che non hanno alcun interesse in uno scontro diretto con lo stato ebraico, induce a pensare che Sharaa abbia tentato di forzare gli eventi in autonomia, sottovalutando le difese dei drusi. I prossimi giorni diranno di più sulla genesi della disastrosa offensiva di Suwayda.  

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  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.