Israele colpisce Damasco

Micol Flammini

L'esercito israeliano interviene con potenza in Siria, anche contro la capitale, dopo le violenze contro i drusi. Le prospettive per la normalizzazione voluta da Trump, la convivenza con il regime di al Sharaa e l'intervento di Washington per il cessate il fuoco

I drusi sono una parte della storia della guerra tra Israele e il regime di Ahmad al Sharaa in Siria. La parte più dolorosa, colpita dalle violenze nella regione meridionale  di Suwayda, costantemente in cerca di protezione. Anche dopo l’ultimo cessate il fuoco raggiunto, i drusi non si fidano del presidente siriano, che loro non hanno mai smesso di chiamare Ahmad al Julani, il nome da combattente jihadista. Per i drusi non può esserci fiducia nei confronti dell’uomo che è riuscito a togliere  la Siria al dittatore siriano Bashar el Assad e guardano con diffidenza a tutti i leader occidentali che ne hanno fatto un interlocutore. Soltanto Israele non è disposto a credere nella conversione democratica di al Sharaa, e questa settimana è intervenuto a favore dei drusi in Siria bombardando prima le forze mandate a prendere  il controllo di Suwayda, poi Damasco, colpendo il palazzo presidenziale e distruggendo il ministero della Difesa. 


Sono rari i momenti in cui la politica israeliana si unisce e oggi è stato uno di questi, con una tempistica ancora più inaspettata visto che il governo ha perso la maggioranza in Parlamento per l’uscita dei partiti ultraortodossi contrari alla leva per gli studenti haredim. In mattinata il ministro della Difesa Israel Katz aveva annunciato di aver ordinato all’esercito di attaccare gli uomini e le armi del regime siriano. Prima che parlasse, il suo predecessore, Yoav Gallant, aveva scritto su X che il governo israeliano non stava facendo abbastanza per i drusi. Poi sono arrivati gli attacchi israeliani contro Damasco, al Sharaa si è dovuto nascondere, ricordando la fuga della Guida suprema della Repubblica islamica dell’Iran, Ali Khamenei, che vive tuttora nascosto per paura di essere scovato dagli israeliani. Dalla maggioranza all’opposizione, tutti in Israele hanno condiviso l’azione a sostegno dei drusi, il leader del Partito democratico israeliano, contrario al protrarsi della guerra nella Striscia di Gaza, oggi ha mostrato i colori della bandiera dei drusi per testimoniare la solidarietà con la minoranza  in Siria. Se da Suwayda i drusi hanno iniziato a fuggire, oggi dal confine tra Israele e Siria  circa mille drusi, tra coloro che vivono nel territorio israeliano, sono partiti per andare a difendere le loro famiglie minacciate dal regime siriano. I legami da una parte all’altra del confine sono stretti, sono famigliari, e nonostante l’appello del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a tornare indietro, chi ha varcato il confine ha continuato a marciare. Chi è rimasto in Israele ha cercato di contattare parenti e amici a Suwayda: “Mi hanno raccontato della violenza, della caccia all’uomo. E’ stato un 7 ottobre per noi”, racconta Khalifa Khalifa, druso, analista esperto di medio oriente, ex consigliere dell’esercito israeliano. Al telefono Khalifa continua a ringraziare Israele per essere l’unico stato democratico a non essersi lasciato abbindolare dai cambiamenti cosmetici di al Sharaa. L’analista ritiene che solo  Tsahal sia disposto ad aiutare i drusi, l’unico capace di capire la Siria. Altri analisti sono invece scettici e credono che gli attacchi al centro di Damasco possano creare una divisione profonda e pericolosa tra la popolazione siriana e Israele.  


Israele si sente il demiurgo dei cambiamenti dentro al territorio siriano: la caduta di Bashar el Assad non sarebbe stata possibile senza la guerra di Tsahal contro Hezbollah in Libano. Se il gruppo libanese armato e finanziato dall’Iran non fosse stato decimato da Israele, al Sharaa non avrebbe potuto compiere la sua marcia sbaragliando l’esercito siriano per nulla pronto a combattere. Damasco è passata da un regime all’altro e Israele vuole dettare le regole al nuovo arrivato, e ha continuato a compiere azioni militari dentro al territorio siriano per due motivi: spogliare i nuovi gruppi armati degli arsenali del regime di Assad e far capire che qualsiasi sgarro militare sarebbe stato punito. Israele vuole che il sud della Siria sia demilitarizzato, vuole tenere gli uomini di Sharaa lontani dai suoi confini e oggi colpendo luoghi molto significativi di Damasco ha dimostrato di essere disposto ad arrivare ovunque e a usare ogni mezzo. “Questo è l’unico modo per evitare la pulizia etnica contro i drusi”, commenta Khalifa. 


Dopo il 7 ottobre Israele ha cambiato il suo principio di azione: non aspetta le minacce, le previene e così si sta comportando in Siria, un paese con cui gli Stati Uniti spingono per la normalizzazione dei rapporti, a cui non tiene soltanto Donald Trump, ma anche il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman che ha ospitato nel suo palazzo l’incontro storico tra il presidente americano e il nuovo autoproclamato presidente siriano. Per Trump la normalizzazione è tanto importante da aver deciso di togliere le sanzioni alla Siria, senza imporre filtri. “Trump ha fretta e non si rende conto che la spina dorsale di questo governo è fatta di jihadisti che aspettano soltanto che cali l’attenzione per togliersi la giacca e la cravatta, gli abiti di scena, e continuare i massacri contro tutte le minoranze”, dice Khalifa, convinto che le tenebre sulla Siria saranno un problema anche per Israele, non soltanto per i drusi di Suwayda che si rifiutano di cedere le armi all’esercito centrale di al Sharaa. Per bloccare lo scontro tra Israele e Siria, gli Stati Uniti si sono mossi subito, chiedendo a Tsahal di fermarsi e all’esercito siriano di ritirare le forze da Suwayda.  Washington si aspetta che, dopo il cessate il fuoco tra drusi e Damasco, la tensione diminuisca, ma come con la guerra contro Teheran, non è detto che Israele ascolti l’Amministrazione americana. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)