la guerra in ucraina

Il "grande annuncio" di Trump è senza colpi di scena per Mosca

Micol Flammini

Il presidente americano concede altro tempo al Cremlino, minaccia dazi se non si raggiunge un accordo in cinquanta giorni e trasforma la solidarietà agli ucraini in un affare per gli Stati Uniti. “Putin è un duro”, dice il capo della Casa Bianca. Kyiv si prepara ad altra guerra con un rimpasto di governo

Dovevano essere ventiquattro ore, poi cento giorni, infine sono diventati cinquanta a partire da ieri. Il tempo concesso dal presidente americano Donald Trump a Vladimir Putin per far finire la guerra della Russia contro l’Ucraina si stringe e si allarga, è soggetto a cambiamenti, a minacce e all’assenza di colpi di scena. Ieri il presidente americano ha annunciato che se Mosca non accetterà di raggiungere un accordo entro cinquanta giorni, allora gli Stati Uniti imporranno dazi al cento per cento alla Russia. La minaccia non è forte per il Cremlino: nel 2024 le importazioni americane dalla Russia sono state  soltanto 3 miliardi di dollari. Molto più letale per l’economia russa sarebbero le sanzioni al settore energetico  e ai paesi  acquirenti, come prevede la proposta promossa al Congresso dai senatori Lindsey Graham e Richard Blumenthal: ma   la minaccia di sanzioni secondarie è rimasta molto vaga da parte di Trump. Mosca ha cinquanta giorni di tempo per pensarci su, nel frattempo continuerà la sua guerra, i suoi bombardamenti contro le città ucraine, colpite da droni e missili insieme, anche se si trovano lontane dalla linea del fronte. 


L’annuncio di Donald Trump aveva creato una grande aspettativa, il presidente americano lo aveva anticipato venerdì scorso, i suoi collaboratori avevano raccontato alla stampa che si sarebbe trattato di un piano “aggressivo”, risolutivo.  Ieri Trump ha fatto le sue dichiarazioni tanto attese, mentre il segretario generale dell’Alleanza atlantica, Mark Rutte, era a Washington  per spiegare che la Nato con l’Amministrazione americana aveva approvato un nuovo piano per dotare l’Ucraina di armi. Il piano non è nuovo, era stato lo stesso presidente ucraino Volodymyr Zelensky a proporlo e a parlarne a Roma la scorsa settimana, durante la Conferenza per la ricostruzione dell’Ucraina. Zelensky è uno dei leader che si è adattato più rapidamente alla mentalità di Trump, avendo bisogno di armi in fretta, ha coinvolto gli alleati europei in un piano ambizioso secondo il quale non saranno gli Stati Uniti a rifornire Kyiv, ma saranno gli alleati della Nato a comprare dagli Stati Uniti ciò di cui gli ucraini hanno bisogno. Washington sarà il mercato da cui scegliere sistemi di difesa e missili, gli europei, a seconda della disponibilità e delle possibilità, investiranno nel mercato americano: “Ci pagheranno il 100 per cento, per noi sarà un affare”, aveva detto Donald Trump domenica, mentre montava l’attesa per il  “grande annuncio”. 


I sistemi più ambiti da Kyiv in questo momento sono i Patriot, servono a proteggere le città dagli attacchi russi. I primi paesi europei che hanno detto di essere disponibili ad acquistare Patriot per Kyiv sono la Germania – ieri il ministro della Difesa era a Washington per un incontro con il capo del Pentagono Pete Hegseth – e la Norvegia. Il capo della Casa Bianca ha detto che ci sono già diciassette sistemi pronti a entrare nel territorio ucraino. Trump ha concluso un affare, parlando a più riprese del successo ottenuto all’Aia, durante l’ultimo vertice della Nato in cui i paesi membri si sono impegnati a raggiungere una spesa pari al 5 per cento del pil da destinare alla Difesa; Rutte continuava a fargli grandi complimenti, ricordandogli anche come il presidente avesse ormai tentato tutto con Vladimir Putin: “Prima di agire con Putin bisogna testarlo, lo so dalla mia esperienza da primo ministro. E tu lo hai testato già molte volte”. Quando Trump parla di Putin si sente colpito personalmente, era convinto fosse il capo del Cremlino il suo interlocutore privilegiato, la persona con cui fare affari per la fine della guerra. Putin ha rifiutato quel ruolo, dicendogli, durante la loro ultima conversazione del 3 luglio scorso, che aveva intenzione di intensificare i combattimenti per occupare tutta la regione di Donetsk: “Non voglio dire che è un assassino, ma è un duro ... nella vita ha fregato già molte persone”, ha detto Trump elencando i presidenti che prima di lui non erano riusciti a capire di che natura fosse il presidente russo. Putin, in realtà, rivela sempre la sua natura, la mostra subito, sono i suoi interlocutori che non lo hanno ritenuto capace di agire secondo le sue minacce. Trump ha detto di essere deluso da Putin e di fidarsi invece del presidente ucraino Zelensky. 


Ieri a osservare lo Studio ovale, con Rutte seduto dove quattro mesi fa sedeva Zelensky mentre veniva accusato dal presidente americano e dal suo vice J. D. Vance di non essere abbastanza riconoscente e di aver scatenato la guerra, sembravano essere trascorsi secoli. Seduta accanto a Rutte c’era sempre la stessa Amministrazione americana e lo dimostrano i fatti: Trump ha parlato della guerra come una responsabilità di Biden, non manderà  nessuna arma nuova agli ucraini se non quelle comprate dagli europei (l’aiuto è solo un modo di fare affari), ha minacciato Mosca dandole altro tempo e offrendole come data di scadenza per ottenere un cessate il fuoco il 2 settembre, il giorno che marcherà gli ottant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale. E’ solo una coincidenza. Mosca ne esce poco toccata dal “grande annuncio”, mentre l’Ucraina si prepara ad altra guerra: Zelensky, che ieri Trump ha definito “un bravo ragazzo” lodando la sua nazione di persone coraggiose, ha annunciato un rimpasto per affrontare i prossimi mesi. Ha offerto la carica di premier a Julia Svyrydenko, finora al ministero dello Sviluppo economico e tra le menti dell’accordo sui minerali concluso con gli Stati Uniti. L’attuale premier Denys Smyhal potrebbe essere spostato alla Difesa, Rustem Umerov, ministro della Difesa uscente, potrebbe invece essere destinato all’ambasciata di Washington: sarà il volto ucraino al cospetto di Trump. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)