
Foto Getty
L'intervista
La grande débâcle avvelena le paranoie del regime iraniano
“In questo momento chiunque abbia una posizione all’interno del corpo delle Guardie rivoluzionarie si starà guardando le spalle, consapevole di poter essere attaccato tanto da un nemico esterno, quanto da un collega”. Colloquio con Kylie Moore-Gilbert, che ha trascorso 804 giorni tra la prigione di Evin e quella di Qarchak
Come si sopravvive a un’umiliazione che espone al pubblico ludibrio ogni errore di valutazione, ogni crepa, ogni debolezza? E’ questa la sfida che si ritrova ad affrontare la Repubblica islamica dopo la guerra dei dodici giorni. Prevedibilmente, la prima reazione alla débâcle è stata quella di negare la sconfitta, ma il ribaltamento della realtà ha soprattutto una funzione propagandistica, non aiuta a risolvere le questioni di fondo, giustificare per esempio il fatto che Israele abbia potuto fare il bello e il cattivo tempo sopra i cieli di Teheran, o che gli uomini più preziosi del regime siano stati stanati, una notte d’estate, nella quiete dei loro appartamenti.
Poco più di un anno fa, il 24 luglio 2024, il ministro dell’Intelligence Esmail Khatib annunciava di aver smantellato la rete del Mossad in Iran, lo faceva con l’enfasi delle grandi occasioni, descrivendo la riuscita dell’operazione non solo come un successo, ma addirittura come “una svolta”. Più recentemente, era l’inizio del mese di giugno, Khatib si è presentato in televisione per rivelare di essere entrato in possesso di un “tesoro informativo” riguardante l’apparato difensivo di Israele. E tuttavia, siccome va da sé che nella Repubblica islamica gli apparatchik di regime sono sempre molto pronti a incensarsi, meno, invece, ad assumersi delle responsabilità, né Khatib né nessun altro ha ritenuto opportuno spiegare agli iraniani come sia stato possibile fallire così tanto e così male, a dispetto delle mirabolanti azioni del regime.
Quel che è accaduto invece e alla velocità della luce, è stato attribuire le colpe “agli altri”, agli afghani, ricacciati oltre il confine al ritmo di 30 mila persone al giorno, e agli iraniani, in blocco, grazie alla promulgazione di una “legge sull’intensificazione delle punizioni per le spie e i collaboratori del regime sionista e di altri paesi ostili”, che stabilisce la più ampia interpretazione possibile del concetto di “collaborazione” e consente di condannare i sospettati, a discrezione del giudice incaricato, senza la necessità di produrre prove o documenti.
Ciò detto, non è che nei palazzi del potere non si stiano regolando i conti. Sui social network si rincorrono voci, filtrano accuse e veleni. “Mio padre cambiava posizione ogni poche ore. Non aveva con sé un telefono né altri supporti tecnologici. I protocolli sono stati seguiti alla lettera”, ha inveito su Instagram Mahdieh Shadmani, figlia del comandante Ali Shadmani, ucciso quattro giorni dopo aver ricevuto l’incarico di guidare il comando generale delle forze armate Khatam al Anbiya.
“Dentro il regime è chiaro che molte di queste operazioni sono state condotte grazie a informazioni provenienti da soggetti che occupano i più alti livelli del potere – dice al Foglio l’accademica anglo-australiana Kylie Moore-Gilbert – per cui è destinata a crescere la paranoia, e parallelamente, la caccia ai cospiratori”. Arrestata a Teheran nel 2018 con l’accusa di essere una spia, Moore-Gilbert ha trascorso 804 giorni tra la prigione di Evin e quella di Qarchak, giorni alla mercé delle Guardie rivoluzionarie, in cui ha resistito alla tortura psicologica e studiato tanto il persiano quanto i suoi carcerieri. I pasdaran hanno un’immagine bellicosa, ma alla furia non corrisponde un grande professionismo. “Difficile immaginare che siano abili in questa caccia alle spie, più probabile, invece, che si cerchino capri espiatori e che questi bersagli vengano scelti per motivi banali di rivalità e opportunismo. In questo momento chiunque abbia una posizione all’interno del corpo delle Guardie rivoluzionarie si starà guardando le spalle, consapevole di poter essere attaccato tanto da un nemico esterno, quanto da un collega”.
Mentre nelle segrete stanze si affilano i coltelli c’è chi si augura che dalla lotta per la sopravvivenza del regime possano riemergere i cosiddetti pragmatici. L’ex presidente Hassan Rohani sta sgomitando per riaccreditarsi come un’opzione affidabile e, stando ad alcune fonti, lo stesso Massoud Pezeshkian avrebbe parlato della fine della guerra dei dodici giorni come un’opportunità d’oro per offrire una sterzata alla politica della Repubblica islamica. Secondo Moore-Gilbert queste speranze sono mal riposte. “Da quando è collassato il Jcpoa (l’accordo sul nucleare di Teheran siglato dall’Amministrazione Obama, ndr) Rohani è ai margini e per quando riguarda Pezeshkian, sempre che lo si possa definire un riformista, non possiede un reale potere, né può contare su una comunità elettorale che lo sostenga. E’ semplicemente stato votato perché le alternative erano peggiori”. La verità secondo Moore-Gilbert è che l’intero progetto riformista ha fallito, nel braccio di ferro con gli ultraconservatori sono stati questi ultimi ad avere la meglio e l’Iran ha da tempo smesso di credere al sogno del riformismo dall’alto. “Sono gli oltranzisti quelli con cui la Guida suprema ha maggiore sintonia e nel momento in qui la Repubblica islamica affronta una sfida esistenziale, coloro che sono più portati alla moderazione rischiano di essere visti come traditori”. Nel cuore pulsante del regime si sta facendo strada invece una generazione più radicale di quella che l’ha preceduta. “Il passaggio nei posti di comando non è ancora avvenuto, gli uomini che sono stati scelti per rimpiazzare i comandanti uccisi sono loro contemporanei”. Ma è questione di tempo. La percezione della minaccia – secondo Moore-Gilbert – non può che favorire l’ascesa di posizioni più radicali.
Per gli iraniani invece, come ha scritto Kian Tajbakhsh in un articolo sull’Atlantic, l’effetto della guerra è stato quello di squarciare il velo sulla città invisibile. Sotto agli squarci prodotti dalle bombe, sotto strati e strati di parchi, di centri commerciali e di caffè, è improvvisamente emersa l’architettura nascosta del potere. Tutto a un tratto sono apparsi gli appartamenti sventrati in uso ai comandanti, le safe-house, i depositi di armi. Luoghi che Moore-Gilbert ha attraversato come un albergo nel nord di Teheran, in cui né i turisti, né il personale si sono fatti domande. Sarebbe importante poter comporre la geografia di questa città invisibile – dice Moore-Gilbert – sarebbe importante prestare attenzione alle storie di chi quel confine lo ha oltrepassato”.


la strategia
Così nasce la pace? Il Pkk consegna le armi
