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la conferenza

Gli ucraini a Roma arrivano con un messaggio: la fine della guerra è lontana, servono armi e sanzioni

Micol Flammini

Mentre si parla di ricostruzione, Kyiv chiede difesa immediata dalle bombe. Il presidente Zelensky lavora per rafforzare il legame con Trump, che è ancora vago sull'invio di Patriot e sulla pressione nei confronti di Mosca

Il nome ufficiale della Conferenza sull’Ucraina è “Ukraine Recovery Conference”, e Recovery, più che “ricostruzione”, vuol dire “recupero”, “ripresa”, anche “guarigione”. A Roma, il risultato della Conferenza sono stati accordi firmati per un totale di dieci miliardi di euro. Il messaggio è che gli alleati di Kyiv vogliono che, dopo la guerra, all’Ucraina possa accadere quello che è accaduto ai paesi europei dopo la Seconda guerra mondiale: un Piano Marshall che faccia ripartire l’economia e faciliti la rinascita del paese sotto ogni punto di vista, dalla cultura all’industria, dalla tecnologia al turismo. Ma in Ucraina la guerra non è finita, la Russia continua ad attaccare e la guerra non riguarda soltanto la linea del fronte lunga milleduecento chilometri. La guerra massacra le città ogni notte, e qualche ora  prima della Conferenza di  Roma, Mosca ha lanciato quattrocento droni e diciotto missili contro la capitale ucraina. 


I bombardamenti russi hanno ucciso due persone. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky è voluto venire  di  persona a Roma per parlare con gli alleati non tanto  del dopoguerra, ma dell’ora, dell’imminente. Ha avuto incontri e bilaterali, è arrivato alla conferenza stampa conclusiva con due ore di ritardo: “Gli incontri sono stati molto fruttuosi”, hanno spiegato dalla sua squadra. Zelensky sente che questo è un momento in cui costruire e rafforzare il suo rapporto con gli Stati Uniti, ha detto di essere “grato” al presidente Donald Trump per il  tentativo costante di cercare una soluzione alla guerra. Zelensky ha ben chiaro come raggiungere questa soluzione, quello che non è assodato è se gli Stati Uniti la pensano allo stesso modo. Se al centro della Conferenza ci sono stati gli accordi per sanare l’economia dell’Ucraina, quelli importanti sono stati gli incontri a margine  come la riunione della Coalizione dei volenterosi con la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, il premier polacco Donald Tusk, l’inviato speciale americano Keith Kellogg (è la prima volta in cui un americano partecipa all’incontro dei volenterosi) e in collegamento il premier britannico Keir Starmer e il presidente francese Emmanuel Macron. “Un funzionario americano mi ha detto che questa foto  vale più di mille parole”, ha raccontato Zelensky e la foto in questione è quella del presidente ucraino riunito con i suoi alleati. Le parole d’ordine dell’incontro sono state droni, sicurezza, difesa. L’Ucraina sembra aver trovato la parola magica per parlare liberamente di armi: “Difesa”, la ripete agli alleati europei, la sottolinea a quelli americani mostrando anche che l’Ucraina non è più interessata a controffensive, ma pensa a tenere il fronte e soprattutto a difendere le  città dagli attacchi della Russia  sempre più potenti. Il resto viene lasciato alla diplomazia. Kyiv si prepara al terzo incontro con i russi a Istanbul, “non si può continuare a parlare soltanto di scambi di prigionieri”, ha detto il presidente Zelensky: finora i russi hanno accettato di negoziare soltanto il ritorno dei prigionieri di guerra  e continuano a imporre le stesse condizioni per la fine del conflitto  che prevedono il disarmo dell’Ucraina e la cessione dei territori occupati. Tra Zelensky e gli alleati rimangono due punti confusi e sono di grande importanza: la consegna dei dieci sistemi di contraerea Patriot che Kyiv ha chiesto agli Stati Uniti e che dovrebbero essere acquistati dagli alleati europei e le sanzioni fondamentali per fiaccare la capacità russa di continuare la guerra. Sui Patriot, ha detto Zelensky, l’Ucraina aspetta una risposta dal produttore. Sulle sanzioni, invece, Kyiv continua a fare pressione perché sono viste come l’unico elemento per bloccare la capacità russa di arruolare uomini e produrre armi, ma i risultati non si vedono. Difesa e pressione, Patriot e sanzioni: sono questi i punti centrali che scriveranno il futuro della guerra. 

L’esercito ucraino difende il paese da tre anni, adesso è arrivato il momento di rafforzarlo, “ci servono capacità militari più forti, perché tutte le informazioni indicano che Mosca non ha intenzione di fermare la guerra”, ha detto Zelensky parlando degli accordi con gli alleati per aumentare le capacità militari di Kyiv. Il presidente ucraino ha detto che c’è una tabella di marcia, ci sono investimenti, ci sono dati:  sa che la cartolina più gradita per Mosca sarebbe l’immagine di una Conferenza di facciata, piena di convenevoli e foto di gruppo, ma senza risultati, per questo ha sottolineato l’impegno degli alleati, ha indugiato su aggettivi come “concreto”, o “pragmatico”. E anche la Nuvola, il centro congressi all’Eur dove sono stati allestiti gli stand delle aziende pronte a investire nella ripresa dell’Ucraina, mandava segnali di questo pragmatismo necessario tra esposizioni di armi, soprattutto droni, e programmi di ricostruzione non per il dopoguerra, ma per il presente. La regione di Zaporizhzhia, occupata per il 70 per cento dall’esercito di Mosca ha offerto un’idea precisa: “Prima è bene parlare della distruzione”, ci tiene a dire il responsabile dello stand (ogni regione ucraina ne ha uno). “Dobbiamo pensare a costruire scuole in cui i bambini possano andare adesso, quindi sotto terra, ben difese, dove le lezioni possano andare avanti con gli allarmi dei missili”, il fronte è vicinissimo, non c’è tempo per andare a rifugiarsi e la maggior parte delle scuole tiene lezioni online ormai dal 2020, tra la pandemia e la guerra. Gli ucraini a Roma sono venuti con un messaggio: la guerra non sta finendo, se volete che finisca, servono armi e sanzioni. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)