
Il primo ministro spagnolo Pedro Sánchez in Parlamento a Madrid (foto LaPresse)
in spagna
Tanto rumore, ma nessuno chiede la fiducia a Sánchez, che va avanti
Il premier spagnolo ha presentato in Parlamento un piano nazionale anticorruzione in 15 punti. Pp e Vox chiedono le dimissioni immediate, ma di fatto il governo ha ricevuto una tacita fiducia e dei due socialisti sorpresi con le mani nelle tangenti si è parlato meno del previsto
Oggi il premier socialista spagnolo Pedro Sánchez è intervenuto in Parlamento per spiegare come il suo governo intenda reagire dopo che due dirigenti del Psoe sono stati sorpresi con le mani nelle tangenti. Il premier ha presentato un piano nazionale anticorruzione in 15 punti pattuito con Sumar, il junior partner del governo, ma la posta in gioco non era tanto l’apprezzamento per le nuove norme proposte dall’esecutivo quanto la permanenza stessa di Sánchez alla guida del paese. Il premier sa che i numeri sono troppo risicati e quindi non ha chiesto la fiducia (dei 179 parlamentari che due anni fa hanno votato a favore della nascita del governo, solo la deputata di Coalición Canaria, Cristina Valido, gli ha suggerito di farlo). Molti di quelli che nel 2023 avevano votato a favore dell’investitura di Sánchez hanno tirato un sospiro di sollievo: per alcuni di loro sarebbe stato imbarazzante tornare a votare un rotondo “sì”, ma nessuno avrebbe voluto prendersi la responsabilità di agevolare l’arrivo dei popolari e soprattutto dell’estrema destra alla guida del paese.
L’opposizione – e cioè il Pp e Vox – ha chiesto le immediate dimissioni di Sánchez. E anche i partiti che fin qui hanno sostenuto il governo hanno duramente criticato un premier che, parole sue, si è fidato delle persone sbagliate. Ma Sumar, per bocca della commossa vicepremier Yolanda Díaz, che martedì ha perso il padre, il vecchio sindacalista antifranchista Suso, ha riaffermato il suo impegno nel governo. E i catalani di Erc, i galiziani del Bng, i baschi di Bildu e i valenciani di Compromís hanno dato al premier una proroga condizionata ad altrettanti particulari. Le parole più severe sono arrivate, a sorpresa, dal Partito nazionalista basco, la cui portavoce ha pronunciato la parola “dimissioni” (ma anche qui solo come ipotesi “nel caso in cui…”). La segretaria di Podemos, Ione Belarra, ha descritto Sánchez manco fosse il fratello cattivo di Francisco Franco. Ma pure lei si è guardata bene dal chiedere elezioni e il suo intervento si è mestamente spento quando le hanno disattivato il microfono per essersi dilungata al di là del tempo consentito. I catalani di Junts, negoziatori for-mi-da-bi-li, l’hanno messa semplice: come hanno fatto fin qui, daranno di volta in volta i loro sette voti in cambio di qualcosa.
Di fatto, Sánchez ha ricevuto una tacita fiducia. E il dibattito ha mostrato bene come ci sia riuscito. Oggi – tra accuse reciproche sanguinarie, spesso personali, e molti colpi sotto la cintura – si è parlato più degli ex premier González, Aznar, Zapatero e Rajoy (e dei loro ministri e dell’Eta e dei mille scandali passati…) che non dei due reprobi che siedono sul banco degli imputati, i socialisti Santos Cerdán e José Luis Ábalos. Perché la Spagna, da sempre divisa tra “rossi” e “blu”, è polarizzata in due blocchi non comunicanti. E, mentre a destra si attende di capire quanto il verde di Vox abbia modificato la tonalità di blu del Pp, Sánchez è, almeno per ora, l’unico vero leader dell’altro blocco, quello in cui il rosso si è ormai miscelato con i mille colori degli indipendentisti.