Perché Hamas sente di avere ancora potere negoziale

Micol Flammini

I negoziati a Doha e tra Netanyahu e Trump. Ragionare sul dopo Gaza senza slogan sul futuro del gruppo. Anche i terroristi invecchiano

La parola “vittoria” riferita alla guerra a Gaza ha un suono muto. Non perché l'esercito israeliano non possa sconfiggere Hamas, ma perché ha già stabilito che ci sono zone della Striscia in cui non entrerà: sono le zone in cui sono tenuti in prigionia gli ostaggi e in cui Hamas è più forte. Tsahal ha scelto di tenere questa parte di territorio, che corrisponde a circa il trenta per cento della Striscia, fuori dai combattimenti. In quel trenta per cento c'è il capitale di ricatto e di negoziato di Hamas che ieri ha detto di essere disposto a rilasciare dieci ostaggi per la fine definitiva della guerra i rapiti ancora nella Striscia, vivi o morti, sono cinquanta. I colloqui per raggiungere un accordo hanno due centri: quello operativo è Doha, in Qatar. Da Doha escono notizie scarne che cambiano spesso di ora in ora. L'altro centro che in questi giorni funziona da laboratorio per cercare un cessate il fuoco è Washington.  

 

Dagli incontri tra il primo ministro Benjamin Netanyahu e il presidente Donald Trump con consiglieri e ministri, nulla trapela. Si lavora in silenzio a Doha ea Washington, si combatte rumorosamente nella Striscia con l'obiettivo di sconfiggere Hamas, che sembra ricrearsi, cambiando pelle continuamente anche adesso, che non ha più i combattenti addestrati dell'inizio, che non ha più i leader che si intendono di come si fa la guerra. Sul campo di battaglia Hamas è un gruppo più piccolo, meno esperto, ma comunque letale. La sua leadership è invecchiata e non vive più nella Striscia di Gaza, ma fuori. "Hamas è molto indebolito, ma non sconfitto del tutto, tuttavia questo non vuol dire che non si possa debellare un gruppo terroristico", dice Seth Frantzman, analista e autore di libri dedicati al medio oriente e al terrorismo, l'ultimo volume è sul 7 ottobre: ​​"The October 7 War. Israel's battle for security in Gaza". Tutto è asimmetrico in un conflitto con un gruppo terroristico, ma questo, secondo Frantzman, non vuol dire che non possa essere sconfitto: "Anche lo Stato islamico è stato battuto. E' vero che ci sono ancora cellule che si muovono per il deserto, ma sono qualcosa di molto diverso rispetto al gruppo che erano prima. Lo stesso vale per Hamas, può essere vinto a Gaza e continuare a esistere all'estero o in Cisgiordania, dove attendere il momento di massima dell'Autorità nazionale palestinese per prendere il potere A Gaza però bisogna farsi una domanda: fino a dove vuole arrivare l'esercito? C'è quella parte di Striscia in cui non entra per proteggere gli ostaggi, è lì che Hamas è più forte. 

 

Durante un cessate il fuoco di sessanta giorni, come previsto dalla bozza di accordo su cui si sta discutendo tra Doha e Washington , Hamas potrebbe cercare di ricostituirsi, di addestrarsi meglio, di arruolare nuovi leve. Potrebbe intervenire l'Iran a sostenere il gruppo, come cerca di fare con Hezbollah, ma è complicato, non ci sono più varchi aperti al contrabbando di armi. La leadership di Hamas a Gaza è stata eliminata, quella a Doha “cerca ancora un futuro” e lo fa negoziando, lo fa aspettando. “Tutte le organizzazioni terroristiche hanno piani per il futuro, la realizzazione del 7 ottobre lo dimostra”, dice Frantzman. Le organizzazioni terroristiche prendono tempo, aspettano il loro momento, ma l'analista ritiene che anche loro, anche le organizzazioni come Hamas, invecchiano: "Bisogna fare un discorso generazionale. Hamas è un gruppo che trae le sue origini dalla fine degli anni Ottanta, per ogni organizzazione arriva un momento in cui diventa meno attrattiva per le nuove generazioni". Ma per ora Hamas esiste, i leader a Doha sono la garanzia della sua continuazione, consapevoli però che dopo il 7 ottobre il loro massimo risultato può essere continuare a esistere: " Per queste organizzazioni la sopravvivenza è interpretata come vittoria. Lo chiamano samud, il principio della fermezza. E' la loro visione, non devono vincere, devono sopravvivere. La barra della loro vittoria è fissata molto in basso adesso. Il conflitto è asimmetrico anche per questo, per Israele la vittoria ha un significato diverso". 

 

Sappiamo qual è il contenuto dei colloqui a Doha, non sappiamo con esattezza qual è il contenuto delle discussioni di Netanyahu negli Stati Uniti. Gaza e il cessate il fuoco sembrano essere la discussione principale, ma Frantzman consiglia di essere prudenti: i titoli sono su Gaza, a cui Trump tiene molto, ma a porte chiuse l'argomento principale potrebbe essere ancora l'Iran. Questi negoziati sono presentati come cruciali per cambiare il medio oriente, tutto è visto come una possibilità. Ma in questo momento in cui non si sa quale sarà il futuro di Hamas o cosa tenterà di fare ancora Teheran , se si creeranno nuove normalizzazioni tra Israele ei paesi arabi, c'è soltanto un cambiamento che è già visibile e riguarda lo stesso Israele, dice Frantzman: "E' un paese propenso ad accettare rischi e scommesse, non ha più una posizione attendista, come è stato per vent'anni. Prima non pensava che avrebbe mai agito per primo". Adesso sa che è necessario, e ha dimostrato di essere pronto a farlo.

  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)