
Magnus Brunner, Emad Trabelsi e Matteo Piantedosi martedì a Tripoli (foto: ministero dell'Interno libico)
azzardi e teorie del complotto
Caravelli chiama Haftar. Inizia la caccia al colpevole dopo Bengasi
Chi accusa i francesi, chi se la prende con l'ambasciatore dell'Ue Orlando. Ma tutte le strade per capire chi sia il responsabile del disastro diplomatico portano invece a Bruxelles: a Ursula von der Leyen. I servizi italiani intanti provano a ricucire lo strappo
Non appena l’aereo di Matteo Piantedosi è atterrato a Roma martedì sera dopo essere stato respinto alla dogana dai libici di Bengasi, Giovanni Caravelli, capo dei servizi segreti esterni, ha alzato il telefono e ha composto il numero di Khalifa Haftar per tentare di fare ragionare il generale della Cirenaica. Dopo lo schiaffo diplomatico rifilato al Team Europe, cacciato da dove era venuto con i ministri dell’Interno di Italia, Grecia e Malta e il commissario Ue per gli Affari interni e l’Immigrazione, Magnus Brunner, i servizi segreti italiani hanno provato a ricomporre la situazione. Però Haftar, a caccia di legittimazione internazionale, ha risposto di essere irremovibile, che per quanto siano positive le relazioni con l’Italia l’atteggiamento della delegazione europea, che si era rifiutata di scattare delle foto con i membri del governo dell’est della Libia, era inaccettabile.
E mentre Caravelli si adoperava per tentare invano di riannodare i rapporti cuciti con Haftar in questi anni, a Palazzo Chigi qualcuno sospettava dello zampino francese dietro al pasticcio di Bengasi. Una vecchia ossessione, forse troppo fragile se si pensa a quanti, oltre alla Francia, si sono verosimilmente sfregati le mani, gongolanti per la figuraccia rimediata dagli europei – di certo la Russia, l’Egitto, la Turchia.
Si affastellavano le prime teorie del complotto, ma è iniziata anche un’altra partita, quella della caccia al capro espiatorio per un pasticcio che somiglia a una nemesi da manuale che mette a repentaglio la pietra angolare dell’agenda del governo italiano: lo stop alle partenze dei migranti. Il Viminale si è affrettato a tirare fuori dall’impaccio Piantedosi, finito incredibilmente in un secondo viaggio-boomerang, dopo quello fatto in Pakistan a maggio, dove si ritrovò bloccato a terra, anche in quel caso, ma per colpa della guerra in corso con l’India. Allora, come oggi, il ministro non riuscì a schivare le critiche per una visita un po’ troppo azzardata, visto il contesto geopolitico. Ma in Libia, assicurano, le cose sono andate diversamente. “Respinto? Solo un incontro annullato all’ultimo”. E poi “la definizione di ‘persona non grata’ riguarda uno dei presenti, ma non Piantedosi”, ha ridimensionato il Viminale.
Nel frattempo filtravano mezze frasi e allusioni su Nicola Orlando, ambasciatore dell’Ue in Libia. “Ha fatto tutto lui”, è convinto qualcuno a Roma per riferirsi alle trattative condotte dal diplomatico a Bengasi per tentare di non mandare all’aria la visita. Primo della lista nella caccia al colpevole, Orlando ora è “troppo schierato con l’altro pezzo di Libia”, riportava ieri un articolo di Repubblica. Una inclinazione invero poco sorprendente, visto che in via ufficiale l’Ue riconosce e ha relazioni solo con Tripoli. Nominato a ottobre del 2023, la storia di Orlando dice piuttosto che è stato lui ad aprire con successo un canale diplomatico tra l’Ue e Haftar, peraltro seguendo le indicazione di Bruxelles per arginare le partenze dei migranti verso l’Europa. Negli ambienti diplomatici, è noto per la sua grande conoscenza della Libia, ma è considerato anche una figura “autonoma”, difficile da controllare. Un pignolo, forse troppo – azzardano a Roma – se nel folle martedì di Bengasi si è ritenuto accettabile per gli europei stringere la mano e farsi fotografare con un criminale di guerra come Haftar, ma non con i ministri del governo della Cirenaica, solo perché non riconosciuto ufficialmente. Proprio per questa “incoerenza protocollare”, una fonte riferisce al Foglio che “tutti nel Team Europe erano coscienti dei rischi che si correvano andando a Bengasi”.
Le premesse del viaggio davano segnali contraddittori. Da una parte c’era l’annuncio dell’invio di Brunner fatto dalla presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, con una lettera agli stati membri datata 27 giugno. Messa sotto pressione dalle insistenze del premier greco Kyriakos Mitsotakis, alle prese con numeri record di migranti sbarcati a Creta, la presidente aveva risposto con una mossa altisonante: il primo viaggio in Cirenaica di un commissario Ue. Stranamente però, a fronte di una tale investitura, fino all’ultimo minuto è rimasto grande riserbo persino sulle tempistiche della visita. Si parla di comprensibili “ragioni di sicurezza”, che però probabilmente non si riferivano solo all’aria tesa che si respirava a Tripoli, ma anche all’odore di pasticcio che si preconizzava a Bengasi. Nella ricerca del colpevole gli indizi conducono quindi direttamente a Bruxelles, dove ora rischia di sgretolarsi anche l’architrave della strategia di von der Leyen sui migranti: l’idea che in Libia dialogare con tutti non abbia un costo politico.