
Shigeru Ishiba, primo ministro del Giappone, durante un incontro a Tokyo il 2 luglio scorso (LaPresse)
Tokyo nel pallone
Il Giappone e la Corea del sud non sanno più come fare con Trump e i suoi dazi
Il secondo round della guerra commerciale colpisce gli alleati più strategici dell’America nell'Indo-Pacifico. Ma il presidente ha mandato una lettera pure alla giunta militare del Myanmar. Disfunzionalità e negoziati impossibili
Il primo ministro giapponese Shigeru Ishiba è sempre più desolato. Parlando ieri alla task force negoziale sui dazi, istituita sin dal “Tariff day” di Donald Trump, ha detto che la decisione del presidente americano di imporre dazi del 25 per cento sul Giappone a partire dal 1° agosto è “davvero deplorevole”, ma ha comunque aggiunto che i colloqui bilaterali proseguiranno per “raggiungere un accordo reciprocamente vantaggioso”. Due mesi fa Ryosei Akazawa, capo negoziatore del Giappone, era seduto davanti a Trump nello Studio ovale con il cappellino rosso Maga sulla testa.
Quella foto, con la delegazione giapponese guidata dal ministro per lo Sviluppo economico di Tokyo con un sorriso un po’ forzato e il cappellino da baseball in testa, in molti l’avevano paragonata a una scena del 2016, quando una delegazione di giornalisti giapponesi era andata al Cremlino a intervistare Vladimir Putin e lui si era presentato nelle vesti di addestratore con il cane Yume, un akita donato dal governo di Tokyo nel 2012 al leader di Mosca. C’era dentro lo stesso imbarazzo per una situazione che rompe i rigidi protocolli burocratici della politica giapponese e si fa show e lusinghe per il leader al centro della scena. Trump era uscito da quella riunione con Akazawa molto ottimista, aveva detto che il negoziato stava andando per il verso giusto, poi la situazione è precipitata di nuovo.
Su Truth, il social trumpiano, il presidente americano ha pubblicato tutte e dodici le lettere inviate ai paesi con cui l’America non ha raggiunto accordi soddisfacenti (quasi tutti asiatici), ma sono soprattutto Giappone e Corea del sud, cioè i due alleati più importanti di Washington nell’Indo-Pacifico, i due paesi che hanno manifestato più sorpresa e disappunto. Anche perché le lettere, quasi del tutto identiche fra loro, sono scritte con un linguaggio trumpiano difficilmente interpretabile in Asia e che riporta al punto di partenza: “Cerca di comprendere che la percentuale del 25 per cento è di gran lunga inferiore a quella necessaria per eliminare il divario di deficit commerciale che abbiamo con il vostro paese”, ha scritto Trump al primo ministro Ishiba, e poi che “questi dazi potrebbero essere modificati, al rialzo o al ribasso, a seconda dei nostri rapporti con il vostro paese”. Ieri Akazawa ha avuto un ulteriore colloquio telefonico con il segretario americano al Tesoro, Scott Bessent, ma è stata una telefonata breve, giusto il tempo di sottolineare il fatto che il Giappone è un alleato strategico cruciale per l’America. Oltre al nodo dell’export giapponese delle auto – che prima dei dazi rappresentavano oltre un quarto delle esportazioni totali del Giappone verso gli Stati Uniti in termini di valore – Trump a un certo punto se l’è presa anche con il riso – sul cui prezzo Tokyo ha avuto grossi problemi negli ultimi mesi – che i giapponesi importerebbero dall’America in quantità troppo ridotte (i giapponesi hanno problemi a importare perfino quello sudcoreano, di riso).
L’arbitrarietà delle politiche aggressive di Trump si vede ancora meglio nel rapporto con la Corea del sud. Lee Jae-myung, il nuovo presidente insediatosi poco più di un mese fa, è parte di quella tradizione politica sudcoreana che vorrebbe meno America e più Cina nel paese, e i dazi ulteriori non fanno che avvicinare Seul a Pechino. Il governo sudcoreano, dopo le lettere di Trump, ha convocato una riunione d’urgenza e poi la portavoce di Lee, Kang Yu-jung, ha detto in conferenza stampa che altro tempo è necessario per far sì che l’interesse nazionale sudcoreano sia garantito in un accordo con l’America. Il problema è che neppure a Seul sanno bene come negoziare con Trump, visto che la Corea del sud ha un accordo di libero scambio con l’America e già i dazi sulle importazioni americane sono pressoché nulli.
Non solo: con la minaccia nordcoreana, sempre più vicina alla Russia, che incombe, Washington ha chiesto a Seul di aumentare le spese militari anche in vista di un graduale disimpegno militare americano nella penisola – parte delle batterie antimissili americane dislocate in Corea del sud sono già state spostate in medio oriente.
Poiché tutto è disfunzionale in questo momento nell’Amministrazione americana, la lettera non è arrivata solo a due alleati cruciali dell’America nell’Indo-Pacifico, ma pure alla giunta militare del Myanmar, che ha preso il potere nel paese con un colpo di stato il 1° febbraio del 2021. Da allora il rappresentante per il Commercio americano ha sospeso tutti gli incontri diplomatici, di cooperazione e i rapporti nell’ambito dell’accordo sul Commercio e gli investimenti Usa-Myanmar, e il deficit commerciale degli Stati Uniti nei confronti del paese non ha fatto che aumentare – nel 2024 è stato di 579,3 milioni di dollari. Forse Trump è pronto a migliori rapporti diplomatici anche con la sanguinaria giunta militare birmana pur di ottenere un successo commerciale.