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Gli invertebrati del presidente
Con Trump si rispolverano le antiche arti della cortigianeria e della genuflessione. Già censurate da Machiavelli e Montaigne
“Donald, ci hai condotto a un momento davvero, davvero importante per l’America, per l’Europa e il mondo: Otterrai qualcosa che a NESSUN presidente americano era riuscito, da decenni, farci pagare ALLA GRANDE…”. Così Mark Rutte, il segretario generale della Nato nel messaggio “privato” a Trump alla vigilia del vertice che gli ha concesso l’incremento al 5 per cento delle spese militari. Più tardi in una conferenza pubblica si è riferito a lui come al “paparino” (daddy). Si riferiva, ha spiegato, alla premura “paterna” con cui era riuscito a persuadere alla tregua i fratelli coltelli Iran e Israele, e a non abbandonare la Nato. La mia prima impressione, confesso, era stata che lo prendesse per i fondelli. Ma no. Trump era felice e soddisfatto. Per niente imbarazzato. “Credo di piacergli, gli piaccio davvero. Se no, torno e lo strapazzo di brutto. Ok?”, la risposta alla domanda di una giornalista americana a proposito.
Rutte che lo chiama “daddy”, il presidente felice e soddisfatto. Per niente imbarazzato. “Credo di piacergli, gli piaccio davvero”
Nelle stesse ore si è capito che tutti, o quasi tutti, si apprestano a seppellire una delle misure più ostiche a Trump e ai suoi amici: la Global Minimum Tax imposta alle multinazionali americane. Era stata approvata da 35 paesi nel 2023. Era entrata in vigore nel 2024. Mirava a impedire che pagassero niente o quasi di tasse trasferendo le sedi principali nei paesi fiscalmente più vantaggiosi. Gli imponeva una tassazione flat del 15 per cento. Vale almeno 220 miliardi dollari l’anno, un gettito di ordine di grandezza simile all’aumento delle spese militari (510 miliardi per gli europei). Poca roba rispetto al gettito iperbolico che avrebbe dovuto essere generato dai dazi. Ma di gran valore simbolico. Se passa questo regalo fiscale alle multinazionali, il padrone di Amazon, Jeff Bezos, potrebbe, in caso di divorzio, celebrare un’infinità di altri matrimoni, anche più sontuosi di quello a Venezia. A spese di noi contribuenti europei, beninteso.
Il Canada non ne voleva sapere. La tassa sul Big Tech non si tocca, dicevano. Trump per ritorsione ha sospeso su due piedi il negoziato col Canada sui dazi. Il Canada ci ha ripensato, sempre sui due piedi. Big Tech esentato. Hanno fiutato l’aria che tira: rischiavano di restare soli, come sola è rimasta in Europa la Spagna. La scommessa è che si piegherà anche il Giappone. Se tanto mi dà tanto, finirà col cedere anche l’Europa. Malgrado le ripetute professioni in contrario. L’atteggiarsi da duri non vale niente se gli hai già fatto capire che non vedi l’ora di inchinarti. Un accordo vale bene una messa, una rinuncia ai princìpi, o una genuflessione, che dir si voglia. C’è una gran stanchezza sui dazi. Come su tutto il resto. Le montagne russe quotidiane, l’incertezza continua, logorano più delle concessioni richieste. Meglio una fine con paura che la paura senza fine.
Siamo abituati a un Trump che dà i numeri, ci tira scemi con la sua aritmetica. Il 5 per cento sulle spese militari probabilmente se l’è inventato di notte. Fosse così l’Europa dovrebbe spendere per la difesa più degli Stati Uniti, che le loro spese militari negli ultimi anni le hanno diminuite. Così come era del tutto cervellotica – elaborata in base a una formula da barzelletta – la bizzarra tabella di dazi che aveva annunciato all’inizio. Il vero cambio di paradigma è nell’atteggiamento, nella nuova propensione all’adulazione e alla supinità, da una parte, e all’accettare e compiacersi di adulazione smaccata e subordinazione a priori, dall’altra.
Una rivoluzione copernicana nel metodo negoziale, basata sul cedimento preventivo? Tutti a piegare la schiena, a sperticarsi in adulazioni? Inizia l’èra degli invertebrati? Nel paleozoico c’erano solo esseri privi di colonna vertebrale. Poi sono arrivati i grandi predatori, i carnivori, gli erbivori, gli onnivori, tra cui si annovera la nostra specie… Che è anche quella che ha spinto all’estremo, in tutti i tempi e tutti i luoghi, l’arte dell’adulazione e del piegare la schiena. Gli invertebrati non sono belli a vedersi. Fanno anche un po’ schifo. Ma se la sono cavata. Hanno continuato malgrado tutto a strisciare e prosperare. Sono tuttora il gruppo che annovera oltre il 95 per cento degli animali conosciuti.
Una rivoluzione copernicana nel metodo negoziale basata sul cedimento preventivo? Gli invertebrati non sono belli a vedersi, ma se la sono cavata
Tutto sta a indicare che Trump si appresta a concludere l’accordo anche con la Cina. Anzi, non ne vede l’ora. Sembrava dovesse essere uno scontro fra titani. E’ l’avversario più temibile. Il decoupling si è rivelato semplicemente impossibile. Coi dazi al 145 e 125 per cento si stavano facendo troppo male gli uni agli altri (nonché a tutti gli altri). La Cina non si può certo considerare invertebrata. Semmai è un’impenetrabile Grande muraglia di gomma. Non è l’Iran. Non la si può bombardare né intimidire. Non la si può invadere, né con gli eserciti né con le merci. Eppure la più grande potenza commerciale al mondo, quella che intrattiene i maggiori rapporti con gli Stati uniti, non è la Cina ma è l’Europa. L’interscambio tra Usa e Cina rappresenta il 2,2 per cento del prodotto lordo americano. Quello tra Usa e Unione europea il 4,9 per cento. Il quadruplo dell’interscambio tra Usa e Regno unito. L’Europa aveva più argomenti della Cina. E invece sembra aver accantonato, nello spazio di un mattino, le ricette, le strategie, gli obiettivi ambiziosi dei piani per fare l’Europa davvero “grande di nuovo” enunciati nei rapporti che aveva affidato a Mario Draghi e a Enrico Letta.
L’imperatore si compiace dei suoi abiti nuovi. Ma non ci sono bambini che dicano che è nudo. Tranne forse lo spagnolo Sánchez, cui però nessuno ha dato retta. Le minacce di terribili punizioni, la voce grossa, sembrano aver dato esiti anche in casa. La Corte suprema si sta allineando. I giudici ribelli appaiono un po’ come gli ultimi giapponesi che continuavano a combattere nella giungla. Il Big Beautiful Bill fiscale di Trump, che toglie ai poveri per regalare ai ricchi, è passato. Malgrado le contestazioni. Nonostante minacci di aggiungere 3.300 miliardi al debito Usa e di accelerare una fuga dal dollaro già in corso. In Senato per un solo voto, quello del vice presidente J.D. Vance, il cui voto è dirimente in caso di parità. Alla Camera, dopo che Trump aveva incontrato uno per uno i repubblicani titubanti. Quelli che facevano la fronda sono stati terrorizzati.
A New York, il trentatreenne Zhoran Mamdani ha vinto a sorpresa le primarie democratiche. Potrebbe diventare sindaco. Peggio, un simbolo della riscossa democratica. O forse no. A Trump comunque non gli fa un baffo. Lo ha bollato come un “comunista pazzo”. Aizzando il terrore suscitato dal blocco degli affitti, dal far pagare più tasse a chi guadagna oltre un milione. Ha addirittura minacciato di farlo arrestare. E’ figlio di intellettuali immigrati dall’Uganda, e per giunta è musulmano. I democratici sono divisi tra chi lo considera davvero un’alternativa e chi lo considera invece una pietra al collo (evoca qualcosa di familiare, nell’opposizione in casa nostra?).
Elon Musk, fino a ieri l’altro il suo più eminente zerbino, il grande adulatore di Trump dalla prima ora, ha osato definire “folle” il piano fiscale. Viene zittito con la minaccia di togliergli commesse e sussidi governativi, di fargli “chiudere bottega”, e addirittura di deportarlo verso il natio Sudafrica. Sembrano argomenti convincenti anche per uno che non è propenso a piegare la schiena.
L’unico che continua a resistergli è il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell. Ma non è chiaro ancora per quanto. La portavoce della Casa Bianca ha mostrato ai giornalisti una riproduzione su scala gigante del bigliettino a mano recapitatogli da Trump in cui lo si accusa di “costare una fortuna agli americani”, “trilioni di dollari in interessi che si potrebbero risparmiare” (con i numeri Trump è sempre disinvolto), non fosse per la sua ostinazione a non voler abbassare i tassi. “Dovrebbero vergognarsi”, ha detto rivolto all’intero board dei governatori della Fed. Tra questi c’è già chi fa genuflessione, forse con la speranza di prendere il posto di Powell.
“Spesso, più che la stima, è la prudenza che ce consija a fa’ la riverenza”, scriveva Trilussa. Ma c’è modo e modo. Per esempi simili di prostrazione ai voleri, anzi ai capricci del sovrano bisognerebbe risalire all’epoca barocca. Pochi anni separano una catena di autori europei che scrivono sull’adulazione e gli eccessi di prosternazione dei cortigiani, e che hanno lasciato un segno indelebile nel pensiero politico europeo. Sono umanisti colti, si richiamano ai classici, e nella fattispecie a Plutarco che denuncia la “perversità degli adulatori” (nei Moralia, un opuscolo a sé dal titolo “Come distinguere l’adulatore dall’amico”).
A riproporre Plutarco contro gli invertebrati aveva cominciato Erasmo. Il secondo capitolo del suo Institutio principis christiani (“L’educazione del principe cristiano”) è intitolato De adulatione vitanda principi (ovvero perché va evitata l’adulazione del principe). Il francescano Antonio de Guevara, inquisitore di Toledo e di Valenza, vescovo di Cadice (ma nonna e madre erano ebree sefardite), fu cronista ufficiale e speechwriter di Carlo V. Aveva scritto un libro intitolato Menosprecio de la corte (“Disprezzo della corte”) per raccontare come il servilismo dei cortigiani l’avevano rovinato, rovinando nel contempo il sovrano e anche l’economia. Montaigne, che ragionava e scriveva nella Francia devastata dalle guerre di religione, aveva ripreso l’argomento, un po’ dialogando con Guevara, un po’ prendendolo in giro. Dice di odiare la piaggeria dei cortigiani, che fa danno al loro signore quanto a sé stessi. Lui preferisce starsene in disparte, nella quiete delle sue campagne e dei suoi studi. Lo fa per amore del quieto vivere, per interesse personale, per viltà se vogliamo. “Non mi è mai capitato di desiderare né impero né regno, né l’eminenza di quelle alte e signoreggianti fortune. Non miro da quella parte. Mi voglio troppo bene”, scrive nel capitolo “De l’incommodité de la grandeur” del libro III degli Essais. Salvo doversi ricredere quando la guerra arriva fin nel suo castello e lo costringe a fuggire precipitosamente, a perdere tutto quel che gli è più caro.
Gli italiani sono un po’ più prudenti dei colleghi d’Oltralpe. Machiavelli invita il suo Principe a guardarsi dagli adulatori come dalla peste. Ma propone sé stesso come uno che gli dirà “il vero”. Ce l’ha con gli adulatori anche l’Aretino, che è principe dei cortigiani (e pure dei ricattatori). Il Cortegiano di Baldassarre è un manuale delle buone maniere, e, soprattutto della sopravvivenza a corte. L’Italia anche nel ‘500 era l’anello più debole.
Il francese Montaigne era stato folgorato dal manoscritto di un suo contemporaneo, col quale avrebbe stretto lunga e intima amicizia: Il discorso della servitù volontaria di Étienne de la Boétie, scritto attorno al 1549. In un momento in cui la Francia era scossa da rivolte contro la gabelle, la tassa sul sale. Sempre e ancora: It’s the economy, stupid! Una perorazione “in onore della libertà contro i tiranni”, lo definisce Montaigne. Troppo pericoloso per essere pubblicato a quei tempi (ne circolò solo qualche copia clandestina tra gli ugonotti perseguitati) sarebbe stato rinvenuto e stampato solo nell’Ottocento. Ce n’è una agile traduzione italiana pubblicata da Feltrinelli, con introduzione di Enrico Donaggio e diversi interventi accompagnatori.
Machiavelli invita il suo Principe a guardarsi dagli adulatori come dalla peste. Però propone sé stesso come uno che gli dirà “il vero”
E’ forse la trattazione e una condanna definitiva, per ogni tempo, dell’arte di piegarsi e strisciare. Di quella che Donaggio chiama “una resistibile degenerazione della nostra forma di vita; uno dei costumi più invisibili, endemici e grotteschi della tribù occidentale”: l’adulazione volenterosa. Passi per il grottesca, ma nascosta mica tanto, mi verrebbe da ribattere. La Boétie elenca, secondo Donaggio, almeno quattro cause estrinseche della “servitù volontaria”: l’abitudine impartita dalla famiglia, che contribuisce in modo decisivo a cementare l’oblio della libertà; le merci dell’industria culturale e gli slogan della propaganda pubblicitaria e politica; la convenienza, cioè le briciole e la corruzione che cadono dalla tavola del padrone, nutrendo una sterminata schiera di subalterni; il mistero, il velo o la maschera, dietro cui da sempre il potere nasconde il proprio volto.
Questione di libertà, prima ancora che di democrazia. L’intuizione sconvolgente per quei tempi è che l’asservimento è una scelta libera, non qualcosa di imposto. Nel 1941 lo psicoanalista ebreo Erich Fromm, rifugiato in America, ne aveva elaborato una versione aggiornata ai tempi: Fuga dalla libertà. Ovvero la psicologia del perché il popolo si era assoggettato consapevolmente e così entusiasticamente alla dittatura nazista. Anche quello un asservimento volontario, una voglia pazza di sottostare all’autoritarismo, qualsiasi autoritarismo, una fuga per stanchezza dagli inconvenienti, dalle incertezze divenute insopportabili della libertà e della democrazia. Tanto più che, screditata e vilipesa, da destra e da sinistra, la democrazia di Weimar, l’alternativa più appariscente del momento era un altro totalitarismo. Tra i due scelsero quello di fattura nazionale, che parlava tedesco.
L’intuizione sconvolgente per i tempi di Étienne de la Boétie è che l’asservimento è una scelta. La ripresa di Fromm in “Fuga dalla libertà”
La servitù volontaria è una forma di schiavitù per scelta e per convenienza. “Costoro vogliono servire per avere delle ricchezze, come se qualcosa potesse mai appartenere a chi non può dire di appartenersi: come se qualcuno potesse avere qualcosa di proprio sotto un tiranno. Vogliono atteggiarsi a padroni delle loro ricchezze, non ricordandosi che sono loro a dare al tiranno la forza di prendere tutto a tutti, senza lasciare nulla che possa dirsi di qualcuno”. Eppure vedono bene che il tiranno “ama soltanto le ricchezze”, e, quando può “fa fuori i ricchi”.
Ma prima ancora fa fuori e se la prende con quelli della sua cerchia, con i servitori più zelanti. “Il tiranno non perde mai di vista quanti gli stanno attorno, brigando e mendicando il suo favore: non basta soltanto che facciano quel che dice, devono anche pensare quel che lui vuole e, spesso, per soddisfarlo, devono anche anticipare i suoi pensieri. Il loro compito non si esaurisce insomma nell’obbedirgli, devono anche compiacerlo […]”.
Quanto al popolo, “preferisce di norma accusare non il tiranno ma i governanti”. Il che fa che li ricopra “di mille offese, di mille insulti, di mille maledizioni”. Ma non per questo se li scrolla di dosso. Anzi, spesso vota per loro, verrebbe anacronisticamente da aggiungere. In Occidente non ci sono i tiranni di un tempo. Ma ci sono troppi aspiranti tiranni. La cifra del tiranno è l’arbitrio nelle decisioni, l’insofferenza a qualsiasi tipo di contropoteri, di contrappesi, di checks and balances. Tutto cambia, ma certe cose che sembravano fuori tempo ritornano. With a vengeance, con vendetta, come si dice in America.