ostacoli e prospettive

Come è fatto "il nuovo medio oriente". Le visioni di Netanayhu e Trump

L'orizzonte politico necessario per soffocare Hamas e isolare l'Iran

Micol Flammini

I punti della visita del premier israeliano a Washington, oltre i convenevoli con il presidente americano: un accordo serio contro il regime di Teheran, il cessate il fuoco a Gaza e il prezzo degli Accordi di Abramo

L’atmosfera a Washington è di celebrazione, di congratulazioni reciproche, anche  se Benjamin Netanyahu sa di dover lasciare la scena  a Donald Trump, nonostante il merito di aver vinto la guerra contro la Repubblica islamica dell’Iran vada più a Tsahal che allo U. S. Army. E’ la terza visita del premier israeliano in sei mesi di presidenza trumpiana, una visita-spettacolo  che ha già un titolo, ripetuto da politici, da titoli di quotidiani americani e israeliani: “Il nuovo medio oriente”.

Con l’espressione “nuovo medio oriente”, americani e israeliani intendono l’architettura retta da accordi di normalizzazione in grado di stabilizzare la regione. Questa struttura però ha due ostacoli: il futuro della minaccia iraniana e la soluzione della guerra nella Striscia di Gaza. Su  Teheran, Netanyahu e Trump hanno due visioni diverse: il presidente americano vede nella guerra, che ha chiamato “dei dodici giorni”, il punto finale. Il premier israeliano invece la vede come un punto intermedio che va consolidato. “C’è una serie di domande che Israele deve porre agli Stati Uniti”, dice Jeremy Issacharoff, ex diplomatico presso l’ambasciata israeliana a Washington ed ex ambasciatore in Germania. “Non è finita qui, bisogna avere una valutazione del programma nucleare iraniano, capire che fine hanno fatto gli oltre quattrocento chili di uranio arricchito al 60 per cento, come stanno messe le centrifughe. Israele deve chiedere un accordo tra Stati Uniti e Iran e deve far capire a Trump che serve pressione per chiudere non soltanto il programma nucleare ma anche quello missilistico e qualsiasi altra minaccia alla stabilità del medio oriente”. Americani e iraniani si incontreranno questa settimana in Norvegia, ma per Israele è importante che Washington  capisca la minaccia iraniana nella sua interezza, dando a Tsahal il benestare per futuri attacchi nel  caso in cui  Teheran provi a riavviare i suoi programmi nucleare e missilistico. Il secondo ostacolo alla costruzione del “nuovo medio oriente” è la guerra nella Striscia di Gaza. “Gaza è un collo di bottiglia per il compimento dei prossimi passi negli Accordi di Abramo”, dice il politologo Gil Troy, riferendosi al piano di normalizzazioni tra Israele e i paesi arabi avviato nel 2020. “Siamo davanti a un bivio, basta una decisione e tutto può cambiare. C’è la sensazione che qualcosa di diverso sia nell’aria, ma è sufficiente un errore e siamo punto a capo”, commenta Troy che vive a Gerusalemme, dove si percepisce la possibilità di un cambiamento dopo i ventuno mesi di guerra, ma si sente anche il peso delle scelte. Trump ha il potere di far accettare la tregua di sessanta giorni che prevede la liberazione di dieci ostaggi vivi, la restituzione dei corpi di diciotto rapiti (in tutto sono cinquanta ancora tenuti in prigionia da Hamas) in cambio del ritiro di Tsahal dalla Striscia e della scarcerazione dei prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Il capo della Casa Bianca preme per annunciare la tregua ma ha un solo punto su cui premere: Israele. Netanyahu lo sa, gli americani non hanno modo di fare pressione su Hamas, che è debilitato, ma ancora è il padrone del 35 per cento della Striscia (secondo l’esercito israeliano) e da quella percentuale può ripartire. Il premier israeliano chiede lo smantellamento del gruppo di terroristi, Hamas terrà gli ostaggi fino a quando non avrà rassicurazioni sul suo futuro. Impossibile conciliare le due posizioni, “per Gaza serve un’innovazione  che ovviamente non sono gli alberghi della  Riviera di Trump, ma una nuova entità governativa che soppianti davvero Hamas”, per Troy i paesi arabi non entreranno mai nel coacervo di distruzione e violenza della Striscia, ma sono pronti a finanziarne la ricostruzione e il futuro politico di chi si candiderà a governarla. Per ora c’è un solo candidato: l’Autorità nazionale palestinese (Anp), l’organismo politico che  di recente è stato sfidato anche da cinque sceicchi che hanno scritto una lettera al governo israeliano, dicendo di essere pronti a entrare negli Accordi di Abramo e di vedere l’Anp come una forza senza di legittimità. 


Serve il punto di svolta a questa architettura e c’è un prezzo da pagare: chi in Israele si fida di un accordo su Gaza lo fa per rivedere gli ostaggi tornare a casa e nella convinzione che nuove normalizzazioni, soprattutto la più pregiata con l’Arabia Saudita, soffocheranno Hamas e isoleranno l’Iran.  “Ci sono le condizioni strategiche per cambiamenti enormi in medio oriente – l’ambasciatore Issacharoff le elenca – Hamas è debole, Hezbollah è sfinito, il regime di Bashar el Assad in Siria è caduto, l’Iran ha provato ad attaccare direttamente Israele due volte ed è stato respinto, infine ha perso la guerra. Ma non basta questo, è un’opportunità che va sviluppata e per farlo serve una dinamica che coinvolga la componente palestinese”. Il diplomatico parla della necessità di un orizzonte politico, indispensabile per consolidare i risultati militari. “Io ho la mia idea di accordo con Hamas, bisognerebbe promuovere un’intesa che permetta subito a tutti gli  ostaggi vivi di tornare con le loro famiglie, ai defunti di ottenere la sepoltura. Non servono sessanta giorni, perché non esisterà mai un accordo di pace tra Israele e Hamas. Vorrei la fine del gruppo, ma è difficile che avvenga, quindi è il momento di un accordo sul modello di quello fatto con Hezbollah che permette a Israele di intervenire quando identifica una minaccia”. Issacharoff va in direzione opposta  rispetto al governo israeliano e a molti cittadini che non sperano più nella soluzione a due stati dopo il 7 ottobre: “Hamas è entrato in guerra contro le normalizzazioni. Non soltanto contro quella con Riad, ma anche contro ogni prospettiva di pace con i palestinesi. Ragionare sulla soluzione palestinese non aiuta i terroristi, li isola, è la loro sconfitta”. 


Netanyahu rimarrà negli Stati Uniti fino a giovedì, Trump ha voglia di titoli e grandi annunci. Ma in medio oriente la regola non cambia: gli annunci valgono meno delle conversazioni a porte chiuse. 

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)