La fine del conflitto contro l'Iran fa sperare le famiglie degli ostaggi

Micol Flammini

Per i parenti dei rapiti non esiste una Guerra dei dodici giorni. Teheran deve rispondere anche per  i crimini di Hamas. La possibilità di un accordo oltre Gaza

“Sono ottimista. Dopo il cessate il fuoco con l’Iran, credo si sia aperta una finestra di opportunità  più promettente per la liberazione degli ostaggi”, dice Leah Goldin. La signora Goldin sorride, spiega le sue ragioni, e ci si sente spaesati di fronte al suo ottimismo e al suo sorriso leggero: l’ostaggio per lei è suo figlio Hadar, rapito da Hamas nel 2014, quando i terroristi, dopo il cessate il fuoco raggiunto in seguito all’operazione Margine di protezione, attaccarono un gruppo di soldati israeliani, li uccisero  e portarono via alcuni dei loro corpi. “Chiedo sempre di non chiamare mio figlio un corpo, Hadar è una persona”. Leah Goldin lo aspetta morto, il suo desiderio è dargli sepoltura. Non considera suo figlio ostaggio di una guerra diversa rispetto a quella iniziata il 7 ottobre del 2023, dopo l’attacco di Hamas contro i kibbutz nel sud di Israele, tutto è unito in un solo grande conflitto e quella che Donald Trump ha chiamato la Guerra dei dodici giorni è il culmine di questo susseguirsi di scontri. Ad alcuni israeliani non è piaciuta la denominazione di Guerra dei dodici giorni, sembra riduttiva, guarda con troppo trionfalismo a qualcosa che è iniziato molto prima. Ma Leah vuole tornare sulle ragioni del suo ottimismo, Trump chiamasse pure la guerra come vuole, Israele ha cose importanti a cui pensare: “Ora siamo arrivati finalmente all’inizio del problema: l’Iran. Sono vecchia abbastanza per ricordare molte guerre di questo paese e so che l’Iran è all’origine di tutto. Finora Hamas si è ripermesso di rispondere ‘no’ a ogni proposta, ha usato la sua leva negoziale che sono i rapiti. Abbiamo avuto conflitti con Hamas e poi con Hezbollah, ma adesso è diverso, lo scontro è diventato diretto, non dobbiamo più accordarci con dei gruppi terroristici che fingono di essere rilevanti e bloccano ogni accordo. Adesso siamo noi e il regime di Teheran e la liberazione degli ostaggi va affrontata direttamente con l’Iran, uno stato membro delle Nazioni Unite. Impossibile separare le cose, va ritenuto responsabile”.

  
Nella Striscia di Gaza rimangono cinquanta ostaggi, per le famiglie che instancabilmente non hanno mai smesso di fare pressione per la loro liberazione, scontrandosi con il governo, con la comunità internazionale, la guerra contro l’Iran era inevitabile. Ronen e Orna Neutra, genitori di Omer Neutra, soldato con la doppia cittadinanza israelo-americana, sono furiosi. Non che Leah Goldin non lo sia, lo sono tutti, la disperazione si fonde alla rabbia, la rabbia si condensa nella consapevolezza che non sono ammesse battute d’arresto: bisogna girare il mondo, fare pressione, parlare, urlare, manifestare, mostrare instancabilmente le foto dei rapiti, abbandonare i vestiti di sempre e mettersi le magliette con la scritta “Portateli a casa”. Per Ronen e Orna però la guerra in Iran ha mostrato che esiste un modo per trovare delle soluzioni comuni: “A Teheran abbiamo visto il contrario di quello che vediamo a Gaza. Gli Stati Uniti sono intervenuti, hanno aiutato Israele. Se a Gaza la guerra va avanti è perché non c’è la volontà politica di farla finire, di esercitare la stessa pressione”. I signori Neutra hanno una ragione diretta per parlare così: l’Amministrazione Trump si è impegnata per la liberazione di Edan Alexander, anche lui un soldato, anche lui americano. “Trump ha mostrato che quando c’è volontà, si trova una strada. Ha ottenuto un successo senza dover dare in cambio nulla”, dice Ronen. Edan però è vivo, Omer  invece è morto dopo qualche mese per mancanza di cure: era stato portato a Gaza gravemente ferito. I negoziati danno la precedenza agli ostaggi ancora in vita per cercare di salvarli. Chi è stato liberato dalla prigionia ha riportato notizie su chi è rimasto, i dettagli hanno reso la liberazione più urgente. 

  
Gli Stati Uniti vogliono che la guerra a Gaza finisca, Trump stesso ha detto che la conclusione è vicina. Anche il capo dell’esercito israeliano, Eyal Zamir, sostiene ci siano maggiori possibilità dopo l’attacco ai siti nucleari iraniani. Leah Goldin ha ragione: non è più possibile considerare gli ostaggi nella Striscia come parte di una storia isolata. Tutto è concatenato, ogni tragedia è dentro a un unico grande conflitto. E’ per questo che le voci che girano sulla fine del conflitto contro Hamas non si limitano più soltanto a parlare dei rapporti tra Israele e il gruppo terrorista, ma si inseriscono in una soluzione più ampia: Accordi di Abramo estesi a paesi come Siria, Libano, Arabia Saudita; impegno futuro (e vago) da parte di Israele per una soluzione a due stati; esilio dei leader di Hamas; stati arabi coinvolti nella ricostruzione di Gaza. Gli Stati Uniti hanno convinto Israele a tornare al tavolo dei negoziati, alcuni mediatori, non di alto livello, si sono visti al Cairo. I parenti degli ostaggi dicono di aver sentito troppe dichiarazioni per credere davvero in un accordo, ormai sono sospettosi. Preferiscono che tutto si muova in silenzio, purché si muova davvero e rapidamente. “Dopo il loro ritorno, potremo davvero iniziare il nostro percorso di guarigione come paese”, dice Ilan Dalal, padre di Guy, che il 7 ottobre era andato a ballare e oggi è in un tunnel della Striscia.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Nel Foglio cura la rubrica EuPorn, un romanzo a puntate sull'Unione europea, scritto su carta e "a voce". E' autrice del podcast "Diventare Zelensky". In libreria con "La cortina di vetro" (Mondadori)