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L'imam sotto la Torre Eiffel
La rivoluzione iraniana è iniziata sotto un melo francese e la Città dei Lumi è divenne il minareto di Khomeini. A Neauphle-le-Câhteau, la Francia gli offrì il palcoscenico perfetto
Il 6 ottobre 1978, un vecchio ayatollah iraniano atterrò all’aeroporto di Parigi con un visto turistico. Ad aspettarlo, tre avvocati francesi: Christian Bourguet, François Cheron e Nuri Albala, pronti nel caso in cui le autorità avessero bloccato il visto. Bourguet, alla guida di una Peugeot 504, portò l’ayatollah in una casa popolare a Cachan, nella Val-de-Marne. Poi a Versailles, infine in una villetta nelle Yvelines, che una coppia franco-iraniana aveva messo a disposizione. Il paese era Neauphle-le-Câhteau e l’ayatollah si chiamava Ruhollah Khomeini. L’islamizzazione degli iraniani iniziò a Parigi il 6 ottobre 1978. Ogni prima domenica di febbraio, l’ambasciata iraniana in Francia organizza una cerimonia in questo piccolo paese nella banlieue parigina. Khomeini occupava due edifici su entrambi i lati della strada per Chevreuse: il luogo di preghiera è di fronte alla casa, una tenda-moschea bianca a strisce blu. L’ayatollah ha il suo melo, come San Luigi aveva la sua quercia. Ma volta le spalle a Parigi, senza degnare di uno sguardo la Torre Eiffel. I suoi pensieri sono fissi su Teheran. L’ufficio postale fornì all’imam due telex e sei linee telefoniche, permettendogli di inviare istruzioni in Iran. Jean Claude Cousseran, segretario dell’ambasciata francese a Teheran, ha raccontato: “Non c’era ignoranza, tutti sapevano chi era Khomeini”. Il telefono tra Francia e Iran non venne bloccato. “Questo significa che l’Iran non ha mai proibito le chiamate tra Khomeini e i suoi”, il caso contrario avrebbe forse interrotto la sua rivoluzione.
Invece di cercar rifugio in un altro paese islamico disposto a patrocinare la lotta allo Scià (in Libia o in Algeria), Khomeini era sbarcato con la famiglia (la moglie, il figlio, pochi congiunti e qualche nipotino) a Parigi. Per la Francia, l’ospitalità concessa a Khomeini serviva a proporsi come la nuova potenza amica, pronta a sostituire gli Stati Uniti e a fruire dell’abbondanza del petrolio iraniano. Si sparse la voce che il vecchio imam riceveva: seguaci e sostenitori accorsero dall’Iran e da tutto il mondo. Aspettavano in coda alla sua porta. I visitatori, prima di poter accedere al padiglione all’angolo tra Route de Chevreuse e il Sentier des Jardins, dovevano aspettare ore sui marciapiedi. I giornalisti imploravano i consiglieri di Khomeini per pochi preziosi minuti di intervista. Il giornalista Amir Taheri stima che non meno di duecentomila iraniani si riversarono a Neauphle tra l’ottobre del 1978 e la fine di gennaio del 1979. La copertura che i media francesi fornirono a Khomeini fu un’immensa operazione di propaganda. Gli dedicarono gran parte dei notiziari in prima serata. Lo presentarono come un eroe romantico che incarnava il popolo iraniano di fronte a uno Scià cattivo e venduto. L’effetto fu così forte che la maggior parte degli studenti che avevano difeso lo Scià al loro arrivo dall’Iran iniziarono a difendere Khomeini dopo aver trascorso alcune settimane a Parigi. Per l’ayatollah, la città dei Lumi, capitale storica della Rivoluzione, era il luogo ideale per la sua causa. Parigi era il suo megafono e Neauphle-le-Château lo studio di registrazione da dove i suoi sermoni venivano distribuiti in massa in Iran.
Khomeini fu il primo a stupirsi, quattro mesi dopo il suo arrivo, di quanto bene la sua strategia di comunicazione stesse funzionando. Affermerà l’economista ed ex ministro dello Scià Houshang Nahavandi (esule a sua volta a Parigi): “E’ l’occidente che ha fabbricato Khomeini, che l’ha lanciato sulla scena politica internazionale come una marca di detersivi”. Lo riconosce anche il comune di Neauphle, che sul sito scrive: “Khomeini fu accolto a Neauphle-le-Château grazie alla complicità di Giscard d’Estaing e del suo ministro degli Interni Poniatowski, che ignorarono i rapporti dei servizi che mettevano in luce la presenza nel nostro paese di una vera e propria rete di propaganda islamista legata al terrorismo internazionale. Per quattro mesi, il nostro tranquillo villaggio fu affollato di pellegrini barbuti e donne velate (una novità all’epoca), provenienti da tutta l’Europa a bordo di decine di auto e autobus”. In un batter d’occhio, Parigi era diventata il minareto della guerra santa iraniana, dalla cui sommità il muezzin lanciava anatemi contro lo Scià e l’occidente, trasmessi in tutto il mondo musulmano. Neauphle è stata la prima capitale dell’Iran islamizzato, il punto di partenza di un ciclone geopolitico, il luogo da cui la Rivoluzione avrebbe assunto le dimensioni dell’utopia. Quando arrivò a Teheran, Khomeini fu accolto da uno striscione in francese: “Tutti gli iraniani ringraziano la Francia per aver accolto Khomeini”. Da figlia maggiore della Chiesa a nonna delle rivoluzioni islamiche. Apoteosi di un soggiorno francese che culmina con un volo Air France, con tutti i comfort inclusi.
L’instaurazione della dittatura religiosa a Teheran iniziò il 1 febbraio 1979 con una folla di uomini in nero prostrati davanti ai colori della Francia. Khomeini non aveva avuto bisogno di chiedere asilo politico; Valéry Giscard d’Estaing glielo aveva concesso, in risposta a una domanda durante una conferenza stampa all’Eliseo il 21 novembre 1978. Era il “sant’uomo”, per usare le parole di Michel Foucault. La Francia aveva scelto da che parte stare e i due capi dell’opposizione, il socialista François Mitterrand e il comunista Georges Marchais, stavano con Giscard e contro lo Scià di Persia. L’antiamericanismo univa tutti.
“Libere elezioni” si terranno in Iran in futuro, dichiara Khomeini da Parigi ai giornalisti dello Spiegel. Assicura al quotidiano conservatore francese Figaro di essere a favore delle “piene libertà”, perché l’islam è una religione progressista. E no, non avrà un ruolo centrale in un nuovo governo. Il Monde il 13 gennaio 1979 scrisse: “Speriamo che tutti noi ci sentiremo un po’ sciiti”. Oltre al quotidiano parigino, i commenti benevoli sull’imam di Neauphle furono ripresi in coro dal New York Times, dal Washington Post, dal London Times, dal Manchester Guardian e, ultima ma non meno importante, dalla Bbc, che gli iraniani potevano ricevere. Fu così, sotto il crepitio dei flash dei più grandi media internazionali che, nel suo presepe di periferia, Khomeini diede vita alla Repubblica islamica. Era il secondo più famoso persiano nella storia di Francia, dopo l’uzbeko di Montesquieu.
Pochi intellettuali vedevano un problema. Uno di questi fu lo scrittore e giornalista ex segretario di Jean-Paul Sartre, Jean Cau, che scrisse: “Fino a dove si spingerà Khomeini? L’Iran, sotto la sua guida, sprofonderà nell’abisso mormorando versetti del Corano, o, a qualunque costo, verso una feroce redenzione?”. Le grandi figure della sinistra intellettuale avevano ceduto al fascino del “mago nero”. E Cau divenne il traditore di Saint-Germain-des-Prés. Khomeini andarono a trovarlo, estasiati, dal filosofo Louis Rougier allo storico della Rivoluzione francese Claude Manceron. Vincent Monteil, attaché militare francese nella capitale iraniana, si convertì all’islam. Rougier, autore di una cinquantina di libri, epistemologo di vaglia, scrisse un saggio per paragonare Khomeini a Davide che trionfa su Golia.
Il giornalista André Fontaine, direttore del Monde, paragonò Khomeini a Giovanni Paolo II in un articolo dal titolo “Il ritorno del divino”, mentre il filosofo Jacques Madaule, riferendosi al ruolo di Khomeini, scrisse un articolo dal titolo “La voce del popolo”, in cui si domandava se “il suo movimento non aprirà le porte del futuro dell’umanità”. Un giornalista dell’Afp che fotografò Khomeini nell’ottobre del 1978 avrebbe poi affermato di aver visto un santo in quell’occasione. Jean-Paul Sartre, che prima di Budapest aveva scritto che”"ogni anticomunista è un cane”, esaltò Khomeini come un paladino della causa del Terzo Mondo. Libération era infiammata.
La storica ed ex giornalista di Libération Claire Brière-Blanchet in un’intervista alla Nzz racconta che a chiunque volesse pubblicare articoli critici sui giornali di sinistra venivano poste domande del tipo: “Sei davvero a favore dell’imperialismo americano?”. Khomeini rilasciò 122 interviste a Parigi. Mentre France Inter parla ormai di “Sua Eminenza”, il fenomeno Khomeini invade la Francia. Le parole “mullah”, “ayatollah” e “chador” fanno il loro ingresso clamoroso nel dizionario Petit Larousse. Il presentatore di punta di TF1, Yves Mourousi, arriva a Neauphle per celebrare il rituale del telegiornale della sera. La sbornia proseguirà a Teheran. Libération titolava: “Insurrezione vittoriosa a Teheran”. E Serge July, direttore di Libération, si fece inviare nella capitale iraniana, da dove scrisse: “La gioia è entrata a Teheran. Il nero è ovunque. Sui turbanti del milione e centomila discendenti del Profeta, sui muri degli edifici del Politecnico di Teheran. Il velo delle donne iraniane è un simbolo di lotta”. Nel sud della Francia, durante il carnevale di Nizza, intanto un ayatollah di cartapesta divora lo Scià. Un simbolo dell’“imperialismo” era caduto. Diritti delle donne, libertà di stampa, diversità di opinione? Tutto abolito, questa volta in nome dell’islam. Khomeini non ingannò soltanto la sinistra francese, ma anche quella iraniana. E se per la prima fu una sbornia, per la seconda il risveglio fu fatale, letteralmente.
I comunisti iraniani sostenuti da Sartre e le fazioni islamiche riuscirono, attraverso scioperi e l’inganno pubblico, a convincere lo Scià ad abdicare nel gennaio 1979 e partire in esilio. I comunisti non sapevano della tragedia che avevano appena scatenato contro se stessi. Gli islamisti presero il controllo delle prigioni e iniziarono a giustiziare i leader comunisti che lo Scià aveva incarcerato per aver sostenuto la rivoluzione. Gli islamisti erano stati pazienti. Avevano stilato le liste. Nelle università, reclutavano tra gli studenti religiosi, li facevano partecipare a manifestazioni e poi facevano scrivere elenchi di tutti in base all’appartenenza politica. Li imprigionarono e uccisero. Mohammad Reza Pahlavi, ultimo Scià dell’Iran, lo disse nel 1979: “Se me ne vado, l’Iran cadrà in rovina; se l’Iran cade, il medio oriente lo seguirà e se il medio oriente sarà in rovina, un grande terrore regnerà nel mondo”. Gli iraniani hanno imparato la lezione nel modo più terribile. Chissà se l’occidente lo farà a proprie spese. La casa di Khomeini al 23 di Route de Chevreuse fu fatta saltare in aria dagli oppositori iraniani del regime dei mullah. Sadegh Ghotbzadeh, il braccio destro di Khomeini nell’esilio parigino, che chiedeva a Thierry Desjardins, che ha seguito la rivoluzione per il Figaro, di correggere i comunicati dell’ayatollah, fu candidato senza successo alle elezioni iraniane del 1980. Il “bel ragazzo di Neauphle”, come veniva chiamato, fu condannato a morte e ucciso due anni dopo per “alto tradimento”. La rivoluzione divora sempre i propri figli.
Shapur Bakhtiar, ultimo primo ministro sotto lo Scià, si dimise il 6 novembre 1979. Lasciò l’Iran e si stabilì a Parigi, dove agenti di polizia gli furono assegnati per proteggerlo. Voleva organizzare una resistenza dalla Francia, come aveva fatto Khomeini. Ma l’ayatollah era riuscito nel suo intento grazie alla propaganda nelle moschee, la complicità della stampa e del mondo politico occidentale. Bakhtiar non aveva nulla di tutto ciò. Si stabilì a Suresnes, in una casa protetta dal governo francese. Ma Khomeini aveva corrotto l’iraniano che aveva installato l’impianto elettrico. Accettò di collaborare con la polizia segreta di Khomeini, che inviò due assassini da Bakhtiar. Questi furono perquisiti dagli agenti di polizia francese che sorvegliavano Bakhtiar. Dopo aver verificato che fossero disarmati, la polizia li fece entrare. Strangolarono Bakhtiar e uccisero la sua segretaria. Poi uno degli assassini andò in cucina a prendere un coltello e pugnalò Bakhtiar tredici volte. Poi gli tagliò la gola e il polso con il coltello da pane. I sicari del mago nero si portarono via la mano mozzata.
