(foto Ap)

teheran

Gli iraniani temono di rimanere da soli con un regime determinato a sopravvivere

Tatiana Boutourline

Macerie, blackout e propaganda: così l’Iran vive sospeso tra paura e speranza. Mentre il regime vacilla e prepara la sua reazione, i cittadini restano soli di fronte a un futuro sempre più incerto

Il giorno dopo l’attacco americano, a Teheran si ha l’impressione di essere precipitati dentro alle pagine di un romanzo distopico.  Ieri mentre dense colonne di fumo seguitavano a levarsi sopra i cieli della capitale iraniana, in particolare nel quadrante nord-occidentale, la televisione di stato trasmetteva immagini di signore intente a fare la spesa, di strade ordinate e di paesaggi estenuanti. In alcuni quartieri l’elettricità era saltata e nei vicoli coperti di polvere i passanti si strofinavano gli occhi. Proprio in quelle ore l’Idf colpiva il quartier generale dei picchiatori bassiji (ci sarebbero centinaia di morti) e il ministro degli Esteri di Gerusalemme pubblicava un video in cui saltava per aria uno dei cancelli della famigerata prigione di Evin, eppure negare la realtà e fingere che sia tutto sotto controllo, che il danno alle installazioni nucleari sia recuperabile, e che non sia la Repubblica islamica ad aver perso la faccia, pare essere più che mai l’imperativo del regime in questa fase. Così, nonostante l’ennesima umiliazione, quando i media governativi hanno dato conto dello smacco, sono stati laconici. Nessun danno rilevante alla prigione di Evin hanno specificato, “i prigionieri sono al sicuro”. 

 

Ma nessuno è davvero al sicuro in questi giorni, di certo non i civili. Mentre il regime preparava la sua reazione  colpendo obiettivi  americani nella regione, in Iran si vive in uno stato di sospensione, consci che la situazione sia grave, anzi gravissima, ma che il peggio debba ancora venire. Il regime è debole, un malato terminale, “uno zombie”, ha scritto l’analista Karim Sadjadpour sul New York Times; questo è il momento magico sussurrano gli iraniani della diaspora, l’occasione che aspettiamo da 46 anni, Khamenei è sepolto sotto a un bunker, Khamenei è  in preda a un delirio cognitivo, Khamenei è stato commissariato dal suo cerchio magico, Khamenei sta per essere eliminato da un complotto pasdaran, le voci si moltiplicano, ma il fatto è che la Guida suprema è una tessera di  un puzzle molto più ampio e che l’ottimismo è un lusso che si può permettere solo chi vive lontano dallo strazio. Perché è vero che le rivolte sono fatte di accelerazioni, ma è altrettanto vero che a ogni curva della storia della Repubblica islamica, gli iraniani si sono ritrovati soli. 

Se l’obiettivo del provvidenziale intervento statunitense –  provvidenziale per il premier israeliano Benjamin  Netanyahu – è quello di neutralizzare la minaccia nucleare, gli iraniani rischiano di ritrovarsi un regime ferito e rabbioso, pronto a tutto pur di assicurarsi la sopravvivenza. Il maslahat, l’interesse superiore del sistema khomenista, è l’unico principio che è rimasto costante in 46 anni di teocrazia e quindi può darsi pure che il regimi cambi pelle, che pur di resistere, la transizione da teocrazia a dittatura militare arrivi infine a compimento, che Khamenei o i suoi eredi siano disposti a “bere calici amari”, rinnegando molto pur di non perdere tutto, ma per gli gli iraniani che sognano la libertà la strada è tutta in salita. Saranno il 20 per cento del paese, ma i lealisti del regime sono pronti a esercitare il pugno di ferro, e nulla lascia pensare che Israele sia pronto ad una lunga guerra di logoramento, né che tra le principali preoccupazioni dell’Amministrazione Trump vi sia il futuro democratico degli iraniani. 

“La democrazia non può arrivare con la violenza e la guerra”, ha detto il premio Nobel Narges Mohammadi. E il senso è che così come il regime ha fallito nell’imporre l’adesione ai valori islamici con i manganelli, fallirà pure chi proverà a imporre la democrazia con le bombe. Altri iraniani, nelle notti accese dai riverberi dei missili,  si affacciano gridando “Marg bar Khamenei”, morte a Khamenei, e pregano che gli stessi “traditori” che il regime invita a denunciare abbiano altre sorprese in grado di piegare il regime. Perché nessuno ha il coraggio di fidarsi più del mondo. Agli occhi di molti iraniani la comunità internazionale è ipocrita, cieca e sorda, ogni suo appello inutile e strumentale. I pacifisti grideranno, si dice a Teheran, perché l’Iran è uno stato canaglia, ma Israele ai loro occhi è canaglia altrettanto e grideranno imbracciando bandiere, ma più in nome del regime che delle sue vittime. E se gli iraniani si rivoltassero come viene da più parti invocato – è già accaduto – queste anime belle si preoccuperebbero dell’equilibrio anti imperialista e subito dopo riporrebbero le loro bandiere e  abbasserebbero lo sguardo. Come dice un detto persiano: quando un matto getta un sasso nel pozzo, ci vogliono dieci saggi per tirarlo fuori, ma questi ahimé sono tempi privi di saggezza.

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