Scottnomics

Scott Bessent, il ministro dei controdazi

Stefano Cingolani


Sconquassò il Sistema monetario europeo con Soros, ma è roba vecchia, la lira non c’è più e noi cattolici perdoniamo e pensiamo all’oggi. E oggi è a un passo dalla Fed. Trumpiano ma non massimalista, potrebbe essere il salvatore del nostro export

Thank you, Mr. Bessent. Grazie, grazie mille: se la bagarre dei dazi non è diventata (non ancora) una guerra mondiale per i commerci lo dobbiamo proprio a lei, vero regista dell’economia e probabile nuovo banchiere centrale. Dobbiamo ringraziarla anche noi italiani; sì, ci ha fatto molto male nel 1992 quando da Londra cominciò a vendere a più non posso sterline e lire italiane, mettendo a terra le due monete che meno sapevano resistere all’onda lunga scatenata dall’implosione dell’Unione sovietica e allo choc provocato dal no danese all’euro. Forse non ricorda o lo ha rimosso, eppure appena trentenne, a capo dell’ufficio londinese di George Soros, lei guadagnò oltre un miliardo di sterline soltanto in quel maledetto 16 settembre, il mercoledì nero, che sconquassò il Sistema monetario europeo. Caddero ministri, ballarono governi, crollarono i risparmi della gente comune, la lira venne svalutata del 30 cento e Giuliano Amato, allora presidente del Consiglio, mise le mani nei conti correnti degli italiani. Ma è roba vecchia, la lira non c’è più e noi cattolici, a differenza da voi ugonotti, perdoniamo e pensiamo all’oggi. Grazie Scott, continui così. Quella testa matta di Donald Trump ha perso il primo round e la vuole spostare dal Tesoro alla Federal Reserve; lei farebbe bene ad accettare, resterà in carica più di lui e probabilmente sarà un buon banchiere centrale, ma intanto non deve mollare. Abbiamo bisogno di vendere le nostre “cose belle che piacciono al mondo” anche negli Stati Uniti, sia pure con qualche balzello in più. 

  

Bessent è sempre stato un fautore dei dazi, ma una cosa è parlarne o simularne gli effetti al computer, tutt’altra cosa metterli in pratica

   
Finiti i doverosi salamelecchi (speriamo che servano anche il prossimo 9 luglio, quando si giocherà la partita delle tariffe tra l’Unione europea e gli Stati Uniti), cerchiamo di capire chi è, che cosa pensa, come vive, con chi e che cosa vuole Scott Bessent. Non è più uno sconosciuto, tanto meno un underdog, direbbe la Meloni, eppure il segretario al Tesoro non è stato raccontato abbastanza per quel che ha fatto nella sua ormai lunga vita in quel di Wall Street, come per il suo rapporto tra affari e politica; ancor meno cosa pensa del dollaro, dell’oro, delle criptovalute, insomma quali sono le sue vedute sull’economia, non sempre lineari. Anzi. Ironia della sorte, Bessent è sempre stato un fautore dei dazi, ma una cosa è parlarne o simularne gli effetti al computer, tutt’altra cosa metterli in pratica e toccare con mano il loro potenziale esplosivo.


Scott Kenneth Homer Bessent, nato il 21 agosto 1962, è un uomo del sud, viene da Conway, nel South Carolina, che ha solo 28 mila abitanti ma è la più antica città dello stato, fondata nel 1732, più o meno quando arrivarono i Bessent, ugonotti francesi espatriati. Gli antenati materni, invece, i McLeod, sono scozzesi. Una famiglia piccolo borghese (il padre era un agente immobiliare), anche se di antico lignaggio. Non è certo il solo record che Scott possa vantare. E’ il secondo gay dichiarato e coniugato a servire in un governo degli Stati Uniti dopo Pete Buttigieg, che però con Joe Biden non era arrivato così in alto: solo segretario ai Trasporti. Bessent si è sposato nel 2011 con John Freeman, ex pubblico ministero di New York, hanno due figli nati con la maternità surrogata. Hanno vissuto a Charleston, capitale del South Carolina, in una grande casa con otto camere da letto e dieci bagni, una sala cinematografica, un solarium e quant’altro, nota come Pink Palace, il palazzo rosa. Prima della nomina, Scott l’ha messa in vendita per oltre 22 milioni di dollari. Adesso (e forse ancora per molti anni) il suo quartier generale è a Washington. Un membro della chiesa ugonotta, un americano del sud diventato miliardario, un trumpiano sia pure a modo suo e un omosessuale consapevole e orgoglioso. Il popolo Maga non protesta, ma certo non può amarlo. Molti non lo amano nemmeno alla Casa Bianca e dintorni. Lo considerano troppo bello, elegante e competente, con l’aria spavalda, il naso all’insù e i capelli pieni di gel (sembra di moda nell’America dei potenti anche liberal come Gavin Newsom, governatore della California). Con Musk che bello non è e tanto meno ben vestito, si sono presi di petto in pieno Studio ovale. Sembra che l’occhio nero mostrato il giorno dopo da Elon sia il segno di un gran pugno sferrato da Scott, che a 63 anni conserva un fisico da palestrato salutista. 


Ci stiamo buttando sul sentiero gossipparo? Oggi più di ieri, e negli States più che altrove, il personale è politico e la personalità di Bessent, che pochi conoscevano, è emersa come la più solida di tutta la banda trumpiana. Non ha studiato a Harvard, ma a Yale, che tra le università dell’Ivy League è la meno radical, così come Princeton è l’alma mater di chi vuole far strada nelle forze armate. Dopo la laurea in Scienze politiche (un Bachelor of arts equiparabile alla nostra triennale) pensa di avviarsi al giornalismo, poi decide di fare soldi e viene folgorato sulla via che porta a George Soros, nato György Schwartz a Budapest nel 1930. Scott entra nel Soros Fund Management nel 1991 e un anno dopo arriva l’occasione della sua vita: speculare sulle monete europee messe peggio, come quella britannica e quella italiana. Speculare non è una categoria morale, ma una tecnica, e lo speculatore è un professionista sul mercato del denaro. Può agire bene o male sul piano etico e finanziario. Bessent ha fatto sia bene sia male. Alla svolta del nuovo secolo, crea un proprio fondo, il Bessent Capital, che va così così e chiude cinque anni dopo. Nel 2011 torna da papà Soros dove resta altri quattro anni, nel frattempo insegna anche Storia economica a Yale. Nel 2015 si mette di nuovo per conto suo, lancia il Key Square Group con il suo mentore che partecipa con due miliardi di dollari. L’idea è di orientare gli investimenti secondo direttrici geopolitiche ed economiche. Parte a razzo con ritorni del 13 per cento, poi s’affloscia e comincia un percorso a balzelloni. Una volta nominato segretario al Tesoro annuncia che avrebbe interrotto tutti i suoi legami con il fondo.
E la politica? Non si può dire che non ci abbia mai pensato, ma dall’esterno, staccando assegni per questo e per quello. Nel 2000 offre la sua casa in East Hampton per raccogliere fondi destinati ad Al Gore, ma dona anche un po’ di dollari a John McCain, il più in gamba dei senatori repubblicani, ex eroe come pilota in Vietnam, prigioniero di guerra per cinque anni. Avversario dichiarato di Trump, muore nel 2018 a 82 anni. Bessent si avvicina a The Donald solo dopo la clamorosa vittoria del 2016 e apre sempre più il portafoglio: nell’aprile del 2024 ospita una raccolta fondi che arriva a 50 milioni di dollari, a luglio diventa il suo consigliere economico e gli suggerisce una strategia alla giapponese, stile politica delle Tre Frecce lanciata da Shinzo Abe nel 2012: allentamento monetario da parte della Banca centrale, stimolo fiscale (meno tasse e più spese), riforme di struttura. L’Abenomics sulle prime ha funzionato benissimo, ma il debito pubblico è salito oltre il 200 per cento, è arrivata la stretta e il Giappone è scivolato verso deflazione e austerità. Le Tre Frecce si sono spuntate e si è cominciato a parlare del malessere giapponese, prova generale della “stagnazione secolare” preconizzata da Lawrence Summers, che aveva criticato il governo nipponico quando era segretario al Tesoro con Bill Clinton tra il 1999 e il 2001. Se guardiamo al bilancio federale varato dal Congresso, il primo della seconda èra Trump, bisogna concludere che porta il segno di almeno due frecce, ma siccome Scott conosce bene la trappola giapponese, ha pensato di poterne uscire con una furbizia: i dazi sulle merci importate. Miele che cola per i Maga neo protezionisti. In realtà il vero paladino delle tariffe, “belle e buone” secondo Trump, è Peter Navarro, “più stupido di sacco di mattoni”: così lo ha definito Musk dopo aver perso 31 miliardi di dollari in Borsa. Scoperto da Jared Kushner, il genero di Trump, grazie a un libro fortemente anticinese, è un pensionato dell’Università della California baciato dalla fortuna. Preso sul serio da The Donald, ha provocato un crollo azionario dal quale tutti i risparmiatori, soprattutto i più piccoli, non si sono ancora ripresi. E’ toccato a Bessent giocarsi le sue carte e il suo nome a Wall Street. Non essendo un ideologo, ma un pragmatico uomo d’affari, ha raffreddato (non ancora spento) gli eroici furori del presidente. 

    

La sua idea dell’economia Usa? Squilibrata fra la parte ricca finanziariamente e di materie prime e la classe media impoverita e impaurita

    
Ma esiste una Scottnomics? Che idea ha dell’economia americana? “E’ come un bilanciere”, ha detto, di quelli usati in palestra: da una parte è ricca finanziariamente e di materie prime, dall’altra ha una classe media impoverita e impaurita, e i due pesi non stanno più in equilibrio. Alzare il salario minimo (sì, esiste negli Usa) sarebbe un bene, ma non come decisione federale, meglio che siano gli stati a decidere. In generale Bessent vorrebbe ridurre l’intervento dello stato nell’economia, eppure come la mette con tutti i sostegni che il Tesoro eroga per sostenere industrie vecchie e nuove? Non ce la farebbe mai a tagliare gli aiuti a Musk o i contratti pubblici alla Palantir di Peter Thiel. Scott denuncia che il disavanzo pubblico arriverà al 7 per cento del pil, il livello più alto della storia, ma si lamenta della bocciatura subita da parte delle società di rating, sostiene che il loro è un giudizio in ritardo perché è tutta colpa di Biden (l’abbiamo già sentita anche a Roma, no?). L’appuntamento per il via libera finale da parte del Senato è fissato per il giorno dell’indipendenza, anche il bilancio dunque sarà nato il 4 luglio, ma è difficile che sia diverso da quello varato dalla Camera.


La Fed di Jerome Powell martedì scorso ha deciso di non ridurre i tassi d’interesse, troppo grande la confusione sotto il cielo e la situazione è tutt’altro che eccellente. Trump lo ha insultato ancora una volta: “E’ stupido”, ha detto, prima aveva usato parole più pesanti. Il presidente insiste a volerlo licenziare prima del tempo: “Avrò pure il diritto di nominare chi voglio”. In realtà in punta di diritto non è così, ma il presidente la legge la vuol fare come gli pare. Bessent ha cercato di dissuaderlo: il presidente della Banca centrale scade la prossima primavera, meglio aspettare. Siccome è lui il predestinato, la mossa rischia di creare un dualismo che confonde i mercati, i risparmiatori, i debitori; e come sappiamo gli americani sono indebitati più di chiunque altro, anzi l’America è indebitata con tutto il mondo, tutti lo sanno e nessuno può farci niente se non accettare il signoraggio del dollaro. L’euro lo ha solo scalfito, la Cina inutilmente spera di conquistare un buon posto al sole per la sua “moneta del popolo”, in questi tempi oscuri torna a risplendere la luce dell’oro, altro che “barbarico relitto”. Ma il biglietto verde resta dominante. Bessent lo vuole forte e su questo si è scontrato con J.D. Vance. Il vicepresidente dà voce al popolo Maga, ma non solo: se il dollaro si svaluta si riduce anche il valore del debito in dollari e si aprono spazi per spendere, spandere e accontentare gli elettori. Il segretario al Tesoro sa che si tratta di una pericolosa illusione, un dollaro forte riduce l’inflazione, sostiene il primato americano e fa bene a Wall Street. Non solo. 

  

Il debito? L’America non lo pagherà mai, la sua garanzia è nella forza, per questo deve abbandonare qualsiasi avventura in terra straniera

   
Nella Scottnomics hanno un posto di rilievo anche le criptovalute, in una versione meno selvaggia: la stablecoin ancorata al dollaro e sottoposta a una qualche regolamentazione, sia pur lasca. Trump, invece, ha speculato alla grande, lui e famiglia, con le cripto. Il debito? L’America non lo pagherà mai, la sua garanzia è nella propria forza, per questo deve abbandonare qualsiasi avventura in terra straniera, riportare a casa tutti i suoi ragazzi, come le industrie e ogni cosa abbia diffuso in tutto il mondo. Un’analisi pubblicata dal Wall Street Journal dimostra che nell’ultimo quarto di secolo l’occupazione si è ridotta del 50 per cento non solo nell’auto e nell’acciaio, ma anche nel cinema, nelle Big Tech, nel Big Money: non soffrono solo Detroit e Philadelphia, ma anche la Silicon Valley, Hollywood e Wall Street. Basta con le guerre, chi se ne frega di esportare la democrazia, gli ayatollah sono affare degli iraniani. Steve Bannon dà voce alla base sociale che ha eletto Trump, Bessent esprime l’élite tecno-finanziaria che gli ha dato i soldi. Anche per questo il bilanciere dell’America, per usare la metafora di Scott, continua a oscillare. 


Sui dazi il massimalismo della prima fase si è via via ridimensionato. Trump ha fatto una parziale marcia indietro con Pechino, accettando obtorto collo la supremazia cinese nei minerali strategici. Con Londra ha raggiunto un accordo sul 10 per cento. Siccome ha detto che il Regno Unito fa parte della Ue, a Bruxelles conviene giocare sull’equivoco e chiudere il 9 luglio prossimo con lo stesso compromesso britannico. Ma The Donald è mobile qual piuma al vento. Adesso tutto è collegato a quel che succede in Iran. Il presidente personalmente è per entrare in guerra al fianco di Israele, ma mercoledì scorso si è ritratto al momento di impartire l’ordine finale. “Posso farlo e posso non farlo”, ha detto anche ai calciatori della Juventus in visita alla Casa Bianca, dipende da Ali Khamenei, ma il Supremo leader non si arrenderà mai. L’amministrazione è divisa: l’avvenente samoana direttrice dei servizi di intelligence, Tulsi Gabbard (ex seguace di Bernie Sanders), ha ammesso al Congresso che Teheran non sta costruendo nessuna bomba atomica (e l’Agenzia internazionale è dello stesso avviso). Rimproverata dal presidente, si è allineata. Marco Rubio non è pervenuto. Bessent aveva parlato di esercitare la massima pressione economica, ma i jet israeliani non si erano ancora alzati in volo.

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