
L'interno di Mar Elias, dopo l'attentato (foto Getty)
tra le macerie di Mar Elias
Massacro di cristiani a Damasco: "Sono stati uomini venuti dall'inferno”
Due attentatori fanno decine di morti durante la liturgia, nella capitale. Il patriarca greco ortodosso: "In tanti anni, mai visto nulla del genere qui". Per il governo è stato l'Isis, che si sta riorganizzando
"Oggi qui le strade sono deserte perché nessuno si sente al sicuro”. Yohanna X, patriarca greco ortodosso di Antiochia, spiega al Foglio come i cristiani non si siano mai sentiti tanto minacciati come ora a Damasco. L’attentato che domenica ha ucciso decine di fedeli durante la liturgia nella chiesa di Mar Elias potrebbe segnare un evento spartiacque per la fragile Siria post assadista. Sebbene lo Stato islamico non abbia ancora rivendicato il gesto, secondo il ministero dell’Interno non ci sarebbero dubbi sulla matrice. Due uomini, forse non di lingua araba secondo alcuni testimoni sentiti dal Foglio, sono entrati in chiesa durante le celebrazioni. Uno ha aperto il fuoco per uccidere più persone possibili, mentre il secondo si è fatto esplodere. Il bilancio provvisorio dice 26 morti e 52 feriti. L’altare, le icone, le panche, tutto è divelto e il sangue è ovunque.
Bassel Elias, un barbiere di 26 anni, gestisce un salone a cento metri dalla Chiesa, nel quartiere di Dweilaa, non lontano dalle zone più centrali della città. Racconta che sua madre è rimasta ferita da tre schegge che le hanno lacerato il corpo. “Quando ho sentito l’esplosione sono corso qui. La scena era sconvolgente, non riuscivo a trovarla allora mi sono messo recuperare i resti di altre persone”. Masoud Nissan, 65 anni, era in chiesa quando gli attentatori hanno fatto irruzione. “Appena il primo uomo ha cominciato a sparare mia moglie si è riparata sotto i banchi della chiesa, io dietro a un muro. Sparava a tutti, molti sono morti subito, sarà durato un minuto, ma per me è sembrato lungo anni, senza fine – continua Nissan – Poi è entrato l’attentatore suicida. Ha fatto tre passi in chiesa e si è fatto esplodere, tutti quelli che gli stavano attorno sono morti. Ho perso 12 famigliari e sono stato ferito. Sono fuggito trascinandomi fuori, tra i pezzi dei corpi per terra”. Lunedì, con coraggio, decine di fedeli sono tornati a Mar Elias a pregare. “Chiediamo al governo di espellere dal paese tutte le fazioni non siriane”, è stato l’appello lanciato dal pulpito da un sacerdote.
Era dal 2016, dall’attentato alla moschea sciita di Sayeda Zeinab, che Damasco non era obiettivo di attentati così efferati in un luogo di culto. Il fatto che finora l’Isis non abbia rivendicato l’attentato potrebbe lasciare aperte altre ipotesi. La prima è che si sia trattato di un gesto non concordato con i vertici del gruppo terroristico. La seconda è che i responsabili siano da ricercare altrove, considerando che sono in molti in Siria a soffiare sul fuoco dell’odio settario per indebolire il governo. Il governatore Maher Marwan ha fatto appello all’unità mentre visitava la chiesa ridotta a sangue e detriti: “La ricostruiremo, tornerà alla sua antica gloria. Siamo vicini alle vittime”. Ma non sarà semplice, secondo il Patriarca Yohanna: “Ci vorrà tempo per ricostruire fiducia e ricreare un senso di sicurezza tra i fedeli e tra i nostri figli dopo l’attentato”, dice. “Domenica, i nostri occhi erano levati verso il Paradiso, pregando per avere pietà, mentre coloro che sono arrivati per ucciderci venivano dritti dall’inferno. In tutti questi anni di guerra, questo è il colpo più devastante che abbiamo subìto”.
Il governo non vuole dare l’idea che non controlli il territorio e oggi, per dare un segnale di fermezza, le forze di sicurezza hanno lanciato diversi raid nella capitale e hanno detto di avere arrestato un gruppo di combattenti dell’Isis coinvolti nell’attentato, sebbene dalle foto diffuse non ci siano elementi per confermare la loro affiliazione. Se l’Isis dovesse rivendicare l’attacco, sarebbe il segno che la sua riorganizzazione è più avanti di quanto si creda. Nel numero di maggio del suo magazine, al Naba, si spiegava come i combattenti si stessero riattivando. Nel vuoto di potere che si è creato con la caduta del regime, i terroristi sono usciti dai loro nascondigli nel deserto di Deir Ezzour, dove si limitavano a imboscate sporadiche, per penetrare nelle città – Aleppo, Hama, Damasco – e mescolarsi alle comunità locali. Il 12 giugno, il Comando centrale americano ha eliminato Rakhim Boev, responsabile delle operazioni esterne dell’Isis, nel nord-ovest della Siria. Secondo gli Stati Uniti, Boev “pianificava attacchi contro cittadini americani e degli alleati”, a dimostrazione della forza che l’Isis sta riacquistando.
E la guerra all’Iran, che rischia di estendersi in Siria e Iraq con gli attacchi alle basi americane da parte delle milizie legate ai pasdaran, potrebbe fare il gioco dell’Isis. Oggi, le autorità siriane hanno detto che un missile è stato intercettato prima di colpire la base americana di Qasrak, nel nord-est del paese. L’Amministrazione Trump valuta il taglio del contingente, passando da 2 mila uomini ad appena 500, ma gli attacchi delle milizie filoiraniane rischiano di assorbire i pochi uomini rimasti mettendo a repentaglio la guerra al Califfato. A pagarne le conseguenze sono le minoranze, come i cristiani. “Noi siamo parte di questo paese – dice Nissan, dall’ospedale di Damasco – Se la maggioranza sunnita che ora governa non ci vuole ce lo dica e ce ne andremo. La verità è che noi vogliamo restare più di qualunque cosa. Quando è il momento di difendere il paese, siamo pronti a combattere al fianco del governo. Ma non vogliamo essere un obiettivo”.