
Trump nel primo viaggio in medio oriente del suo secondo mandato
Gli alleati segreti
Dietro le condanne ufficiali, tra i paesi del Golfo aumenta il sostegno silenzioso all'offensiva
Lo scontro Israele-Iran riscrive gli equilibri del medio oriente. Dietro le quinte, un’intesa regionale prende forma contro l’espansionismo degli ayatollah. E si prepara al nuovo ordine regionale
Tel Aviv. “Sono rincuorato dai messaggi che ricevo da molti nel mondo arabo, che vanno da ‘Wow! Incredibile quello che ha fatto Israele’, a ‘Ne abbiamo bisogno per metterci alle spalle finalmente le minacce e il pericolo’. Alcuni di questi non amano Israele, per le sue politiche nei confronti dei palestinesi; altri sì. Ma tutti sono intellettualmente onesti nel riconoscere che il vero nemico è il regime iraniano”. Così, all’alba dell’attacco israeliano contro l’Iran, twittava Jason Greenblatt, già rappresentante speciale del presidente per i negoziati internazionali nella precedente Amministrazione Trump. In questa carica, è stato uno degli architetti dell’avvicinamento strategico tra Israele e i paesi del Golfo, un lungo percorso che ha avuto il suo massimo momento pubblico nel 2020 con la sigla degli Accordi di Abramo e che ha continuato a procedere sottobanco nonostante le scosse tettoniche innescatesi in medio oriente con l’attacco di Hamas ormai venti mesi fa. Nei giorni drammatici in cui, dopo decenni di guerra ombra o per procura su suolo palestinese, libanese, siriano e yemenita, stiamo assistendo alla resa dei conti tra i due rivali non arabi dell’area, decifrare la posizione degli altri attori regionali richiede un certo esercizio ermeneutico.
È lo stesso sforzo che spesso è richiesto per interpretare le mosse di Trump annunciate sul nuovo canale della diplomazia mondiale, il suo social Truth. Diverse persone che negli anni hanno intessuto relazioni di cooperazione con il Golfo possono testimoniare che i messaggi di cui Greenblatt parla sono all’ordine del giorno, ma rimangono confinati ai rispettivi cellulari. Nella sfera pubblica invece, il paesi del Golfo si sono allineati alle dichiarazioni di condanna di Israele sia individualmente, sia firmando un appello di 21 stati musulmani promosso dall’Egitto. L’Organizzazione della cooperazione islamica conta però 56 paesi. Tra gli assenti più evidenti ci sono il Marocco, ma soprattutto la Siria e il Libano, ossia i paesi che, fra tutti, sono i primi diretti interessati a un indebolimento dell’Iran, essendo stati intrappolati nella morsa delle velleità egemoniche della potenza sciita fino a pochi mesi fa. Quando Netanyahu afferma che “la strada per Teheran è spianata” per i caccia israeliani, questo è solo il culmine di un’operazione iniziata a settembre scorso con il colpo inferto a Hezbollah e, a seguire, la caduta del regime di Assad.
Questo è uno dei punti evidenziati in un interessante editoriale di martedì su Asharq al Awsat del Dr. Abdulghani al Kindi, presidente dell’Associazione saudita di Scienze politiche, in cui riflette sull’incapacità degli opinionisti arabi di analizzare la realtà geopolitica a causa di una diffusa mentalità alimentata “dalla propaganda iraniana o da una mentalità cospirazionista che sostiene che il conflitto iraniano-israeliano non sia altro che una farsa preordinata volta a distruggere il mondo arabo”. Uno degli esempi che porta è la mancata comprensione del fatto che “la debolezza interna dell’Iran ha reso le sue milizie esterne la sua prima linea di difesa. […] Queste fazioni fungevano da cuscinetto, preservando l’immagine dell’Iran come potenza regionale. Tuttavia, con l’evolversi degli eventi e con l’intervento di Israele contro questi proxy, l’Iran è stato costretto a reindirizzare i propri sforzi verso l’accelerazione dello sviluppo delle sue armi nucleari”.
Negli editoriali dei quotidiani del Golfo non si trovano commenti che riflettano i messaggi di sostegno espressi in privato, ma nemmeno dure condanne. Quello che emerge invece come linea comune è una paura concreta rispetto alle possibili ripercussioni sulla stabilità interna dei singoli paesi, specie se una eventuale partecipazione attiva americana all’operazione israeliana porterà all’attacco da parte degli ayatollah delle basi americane nell’area. E’ una paura concreta, e non è un caso che martedì in Bahrein – dove si trova la Quinta flotta americana –- siano suonate le sirene nell’ambito di una esercitazione della Protezione civile.
“C’è il timore di un’escalation”, dice al Foglio Ahdeya Ahmed al Sayed, già presidente dell’associazione dei giornalisti del Bahrein. “Ma questa guerra ha il potenziale di eliminare tre fattori: l’espansionismo regionale degli ayatollah che ha impattato direttamente anche noi, tramite gli houti; le loro ambizioni nucleari, che se pensiamo al livello di influenza dell’Iran sulla regione oggi, non vogliamo immaginare quale sarà il loro impatto se avessero l’atomica; e un cambiamento di questo regime, che può essere effettuato solo dagli iraniani”. Le condanne pubbliche, dice al Sayed, riflettono la preoccupazione dei paesi del Golfo perché la regione non vuole vedere nessuna guerra, “non vorremmo vedere vittime civili, da nessuna parte”. Ma al contempo c’è molto rispetto per gli alleati, “specie quando ti svegli una mattina e scopri che Nasrallah e altri nemici dei paesi del Golfo sono stati eliminati”.
E mentre la strada spianata per Teheran sorvola i cieli della Siria e dell’Iraq – come descritto nelle infografiche dell’Idf che tracciano i 2.000 chilometri percorsi dai piloti – vi sono indicazioni che Israele abbia operato anche nello spazio aereo della Giordania e dell’Arabia Saudita, come ha scritto il professore Eli Podeh sul Jerusalem Post, specificando che è “troppo presto per rivelare la reale portata del coinvolgimento arabo”, che invece viene menzionato in molte conversazioni off the record.
La visita di Trump nel Golfo di maggio – quella visita che escluse Israele dall’itinerario, facendo circolare molte speculazioni su malumori tra il presidente americano e Netanyahu, e che in realtà oggi sembrano essere parte del depistaggio di un’operazione preparata a tavolino per lunghi mesi – ha visto il dossier iraniano sul tavolo.
In un editoriale per Arab News che anticipava la visita, Ali Shihabi sottolineava come il Regno Saudita e gli altri stati del Consiglio del Golfo “vedono nell’Iran un pericoloso avversario che sogna di abbattere l’ordine dominante nel Golfo, stabilendo la propria egemonia sulla regione, utilizzando cinicamente la causa palestinese per fomentare instabilità e rabbia in tutta la regione per raggiungere quell’obiettivo finale”. Suggerendo che l’Iran si deve aspettare un avvicinamento sempre più intensivo del Golfo “all’alleanza guidata dagli Stati Uniti, con tutto ciò che essa comporta”.
Trump, che nel suo modus operandi intreccia i vari scenari geopolitici, vede interconnessi il fronte iraniano e quello di Gaza, come parte di una realtà regionale più ampia che sta cercando di plasmare. E’ presumibile che il suo appoggio all’azione di Netanyahu sull’Iran – su cui il premier ha dovuto lavorare duramente, sovrastando l’ala più isolazionista dell’Amministrazione – sia condizionato alla chiusura della campagna militare a Gaza nel corso dell’estate, per passare alla fase della transizione politica con un coinvolgimento dell’Autorità palestinese. E’ uno dei prezzi che Bibi dovrà pagare – rischiando la sua coalizione – anche per consentire ai sauditi di avere un ruolo attivo e pubblico nella ricostruzione della Striscia, e lasciare quindi uno spiraglio in vista della tanto auspicata normalizzazione con Riad.
Meir Ben Shabbat, già capo del Consiglio di Sicurezza nazionale negli anni cruciali della pianificazione degli Accordi di Abramo, e oggi presidente del centro studi Misgav, uno di quei personaggi che ha partecipato agli incontri segreti che stanno plasmando la regione, dice al Foglio che continua a credere che questo percorso non si sia fermato, nemmeno ora che Israele sta “facendo il lavoro sporco”, come dice Merz. “I paesi del Golfo sanno benissimo chi c’è dietro gli attacchi alle strutture di Aramco e ad Abu Dhabi, chi sta armando, addestrando e finanziando gli houthi, chi sta cercando di radicarsi in Sudan e, cosa più grave, chi sta costruendo capacità nucleari e missili balistici che gli permetteranno di attaccare qualsiasi stato desideri. Il divario tra le dichiarazioni pubbliche e i desideri del cuore è un’ulteriore prova del terrore che il regime islamista ha inflitto alla regione. Con la fine della guerra, quando l’Iran non sarà più in grado di minacciare strategicamente la regione, mi aspetto una significativa espansione della cerchia delle alleanze con Israele. La regione cambierà volto. Una nuova luce illuminerà l’oscurità che ha proiettato l’Iran”.