
Foto ANSA
un varco tra due società
Come funziona la rete israeliana che comunica con gli iraniani
Perché Netanyahu si rivolge ai cittadini dell’Iran? Cosa sa Israele della rivoluzione che Teheran per ora non fa
Nell’esercito israeliano ci sono ufficiali che parlano in farsi. Ci sono esperti che gestiscono account sui social per discutere direttamente con gli iraniani e che in questo anno e mezzo di guerra su tutti fronti hanno spiegato le ragioni di Israele. Ci sono iraniani che hanno lasciato la Repubblica islamica e si sono messi a lavorare in Israele per cercare un terreno comune, per aprire un varco tra le due società. Il varco esiste, ma non è certo il primo passo verso la rivoluzione. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha rivolto diversi appelli agli iraniani, lo fa da tempo, pensa di essere ascoltato. “Lo fa per dimostrare che la guerra di Israele è contro il regime e non contro i cittadini. Ha un metodo che può funzionare, non parla di accordi, non parla di politica e si rivolge alla popolazione sottolineando tutte le conseguenze pratiche di essere guidati da un regime”, dice Alex Grinberg, ex comandante del dipartimento di ricerca dell’intelligence dell’esercito israeliano, esperto di Iran.
Non bastano le parole di un primo ministro straniero che ha lanciato un’operazione militare contro il paese per convincere gli iraniani a mandare giù il regime, “e non è quello l’obiettivo di Netanyahu. Sta dicendo che gli israeliani preparano il terreno. Il resto del lavoro, se lo vogliono, spetta agli iraniani”. Come ha mostrato l’operazione Am Kelavi (“Leone che si erge”), Israele ha delle informazioni molto precise sull’Iran, molto di più di qualsiasi altra intelligence, anche degli americani che avevano sbagliato il livello di arricchimento dell’uranio raggiunto dal programma nucleare di Teheran. Israele non dispone soltanto di informazioni militari, ma anche sociali. Ci sono agenti e funzionari dell’intelligence che vivono all’interno della società iraniana, che percepiscono la situazione, la voglia di cambiare o meno e finora i segnali raccolti hanno mostrato una popolazione sofferente e insoddisfatta, stanca del regime, ma non per questo pronta a rivoltarlo. Difficile che la guerra cambi la situazione. “Il giorno dopo il primo attacco, i social si sono riempiti di scherzi, battute di iraniani che dicevano: abbiamo sentito esplosioni durante la notte, ci siamo spaventati, poi abbiamo capito che erano gli israeliani, che avevano fatto fuori un altro chierico e ci siamo rimessi a dormire. Non basta questo per valutare le basi per un cambio di regime. La protesta è qualcosa di molto diverso dalla volontà politica”, dice Grinberg, scettico sul ruolo di un’opposizione a Teheran.
“Non esiste un’opposizione iraniana nel senso di un movimento politico organizzato. Ci sono correnti che vivono all’estero, che diffidano l’una dell’altra, che accusano chi non la pensa come loro di essere agenti del regime. Alcuni che dicono di essere oppositori sono davvero agenti di Khamenei”. Anche la guerra ha diviso l’opposizione all’estero, tra chi ci vede una possibilità e chi ha accusato Israele. Grinberg ha origini russe, è nato in Unione sovietica e dice che le opposizioni iraniana e russa si somigliano molto, sono litigiose, incapaci di unirsi e di capire che la mancanza di unità è la principale debolezza che i regimi hanno sfruttato per anni. Sono distaccate dai paesi di origine, incapaci di capire come si è evoluta la situazione per chi è rimasto. Grinberg traccia un parallelismo anche tra le popolazioni, prendendo in considerazione non i russi di oggi, ma i sovietici: “Chi odiava il regime non voleva fare niente per cambiarlo. Lo stesso in Iran, il fatto che la gente detesti Khamenei non vuol dire che si senta spronata ad agire per abbatterlo”. Una grande differenza tra i due regimi è la loro struttura: “Vladimir Putin ha messo in piedi un potere verticale, lui è il sole, controlla tutto e ha legato tutti a sé. Ali Khamenei è la persona che prende l’ultima decisione, ma non ha lo stesso controllo su tutti gli apparati”.
Putin ha asservito le élite, ha neutralizzato il potere degli oligarchi. Per Khamenei il potere è in parte una questione di mediazioni tra correnti: l’ultima parola spetta a lui, le correnti che prendono il sopravvento possono variare. “Israele sa che i cambiamenti non possono essere gestiti da remoto e nello stesso tempo non ci sono rivoluzioni partite dal basso: l’insoddisfazione genera spesso volontà di sopravvivere. Quando si verifica un cambiamento in un regime è perché le élite hanno visto un’alternativa, non si muovono senza sapere cosa accadrà dopo. Su queste basi è più facile prevedere che il regime di Khamenei sarà sostituito da un altro regime, più pragmatico, non necessariamente amico di Israele, ma che non farà dell’odio nei confronti di Israele la sua ragione di esistere”. Grinberg sottolinea che la Guida suprema e i pasdaran potrebbero sopravvivere a questa guerra, trovando la strada per mantenere intatta la loro ideologia e incerte le élite su un futuro senza regime.