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L'editoriale del direttore

Prendere sul serio le minacce iraniane è l'unico modo per evitare la vera escalation

Claudio Cerasa

Si possono avere mille dubbi su ciò che sta succedendo a Gaza. Ma non ci vuole molto a capire che una teocrazia dotata di proxy e di armi nucleari rappresenterebbe una grave minaccia non solo per la regione ma per tutto il mondo

La straordinaria operazione militare con cui, nella notte tra giovedì e venerdì, Israele ha colpito a tutto campo l’Iran, con un attacco studiato per distruggere la capacità della Repubblica islamica di costruire un’arma nucleare, ha riportato al centro del dibattito politico una parola che sarebbe bene maneggiare con molta attenzione, quando si parla di medio oriente e soprattutto quando si parla di Israele: escalation. La teoria degli oppositori di Israele è sempre la stessa: ogni volta che Israele colpisce un obiettivo militare, Israele non può che essere considerato come il grande destabilizzatore del medio oriente. Il gioco, alla fine, è quello di trasformare Israele nell’aggressore che minaccia, non nell’aggredito che si difende. Ma quando si parla di Iran solo chi è in malafede può far finta di non aver visto, in questi anni, una verità che è sotto gli occhi di tutti, e che riguarda un tema difficilmente eludibile.

 

             

 

L’escalation della violenza, in medio oriente, non è responsabilità di Israele, ma è responsabilità di uno stato canaglia che da decenni, non da mesi, ha scelto di trasformare lo stato ebraico in un’entità da cancellare dal fiume al mare. Lo ha scelto non in modo astratto, non a parole, ma facendo tutto il necessario per aggredire Israele, per colpirlo, per minacciarlo, per provare a distruggerlo, invocando la sua distruzione, finanziando coloro che hanno tentato di realizzarla e mordendo su sette fronti. Il fronte di Gaza, con l’attacco del 7 ottobre portato avanti da una milizia finanziata dall’Iran: Hamas. Il fronte libanese, con il sostegno militare a Hezbollah. Il fronte della Cisgiordania, dove l’Iran finanzia cellule del jihad islamico. Il fronte siriano, dove Teheran, prima della cacciata di Assad, aveva costruito una rete di basi, depositi e milizie, per colpire Israele sul Golan. Il fronte dello Yemen, dove l’Iran finanzia e sostiene e attrezza da anni i terroristi degli houthi, i cui missili da mesi arrivano non solo nel Mar Rosso ma anche in Israele. Il fronte dell’Iraq, dove operano milizie come Kataib Hezbollah e Harakat al Nujaba, che sono parte dell’“Asse della Resistenza” usato dall’Iran per lanciare razzi e droni contro Israele. E il fronte iraniano, naturalmente, dove la grande escalation, ignorata per mesi dall’occidente, è stata denunciata persino dalle Nazioni Unite, che giusto pochi giorni fa, attraverso l’Aiea, hanno documentato, in modo puntuale, i vent’anni di inganni da parte della Repubblica islamica sui suoi progressi nucleari, ricevendo come risposta, da parte di Teheran, l’annuncio dell’espansione del proprio programma nucleare.

Ci possono essere dubbi laceranti, profondi, drammatici per giudicare e giustificare ciò che Israele sta facendo a Gaza. Ma difficilmente ci possono essere dubbi nel sostenere che ogni azione di Israele volta a indebolire, con attacchi mirati, la teocrazia iraniana, con tutti i suoi tentacoli, e ogni azione volta a distruggere, come è stato negli ultimi mesi con Hezbollah, gli avamposti del terrorismo islamista è un’azione al centro della quale vi è la protezione non solo dei confini di Israele ma anche di quelli delle democrazie mondiali.

Negli ultimi anni, ha scritto il Wall Street Journal, centinaia di americani sono morti per mano sua, per mano dell’Iran, e se il regime degli ayatollah è stato in grado di compiere quelle uccisioni con armi convenzionali non ci vuole molto a capire che un Iran dotato di armi nucleari rappresenterebbe una grave minaccia non solo per la regione ma per tutto il mondo. Si possono avere mille dubbi su ciò che sta succedendo a Gaza, e sul senso della strategia di Netanyahu. Ma non si dovrebbero avere dubbi sul fatto che l’occidente libero dovrebbe riconoscere che il fatto che ci sia qualcuno in grado di prendere sul serio le minacce del regime degli ayatollah è l’unico modo per evitare la più pericolosa delle escalation: una teocrazia dotata non solo di proxy ma anche di armi nucleari.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.