Israele prova a rallentare il programma atomico iraniano

Giulia Pompili

Gli attacchi a Natanz e Isfahan, ma il cuore del programma è Fordo. Smentito lo strike alla montagna segreta di Teheran. Il programma nucleare che serve alla sopravvivenza del regime era stato oggetto di una storica censura da parte dell'Aiea solo l'altro ieri. I precedenti e i rischi

L’attacco di ieri di Israele contro parte delle infrastrutture nucleari dell’Iran è avvenuto il giorno dopo che il Consiglio dei governatori dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica aveva condannato Teheran per aver violato i suoi obblighi di sicurezza accumulando uranio arricchito e limitando l’accesso degli ispettori, approvando poi l’ennesima risoluzione (tre voti contrari su 22, quelli di Russia, Cina e Burkina Faso) contro il programma atomico iraniano. A quella inusuale e decisa dichiarazione dell’Aiea aveva risposto direttamente anche il presidente iraniano Masoud Pezeshkian, che aveva confermato la volontà di Teheran di continuare con l’arricchimento dell’uranio: “Le conoscenze nucleari dell’Iran sono profondamente radicate e non possono essere eliminate con azioni militari. Anche se bombardassero le nostre strutture, le nostre capacità risiedono nelle nostre menti. Qualunque cosa distruggano, noi la ricostruiremo”.

 


Tra gli obiettivi degli strike israeliani di ieri c’era quello di rallentare il raggiungimento del “punto di non ritorno” dell’Iran come potenza nucleare di fatto.  E uno dei target della notte tra giovedì e venerdì è stato il sito di Natanz, nella provincia centrale di Isfahan, uno dei più grandi e conosciuti impianti di arricchimento dell’uranio dell’Iran, che da poco più di dieci anni, per volere dell’allora presidente Mahmoud Ahmadinejad, porta il nome dello scienziato Ahmadi Roshan, uno degli studiosi nucleari assassinati in diverse circostanze nel corso del 2012. E così è tutta la storia del programma nucleare iraniano, per decenni rallentato e prevenuto dalle operazioni, più o meno segrete, del Mossad. Natanz è sempre stato il principale obiettivo di chi cercasse di evitare che l’Iran si trasformasse in  una potenza nucleare di fatto. L’operazione più importante, e spesso definita anche la più efficace, nata in collaborazione con l’America attorno al 2010, fu quella dal nome in codice Giochi olimpici, portata a termine nel 2021, un puro sabotaggio informatico tramite un virus chiamato Stuxnet che si era infiltrato nel sito nucleare bloccando temporaneamente bloccato circa mille delle 5 mila centrifughe in funzione a Natanz.  Ieri David E. Sanger, che segue l’Iran e i temi di sicurezza e difesa da decenni, ha scritto sul New York Times che quell’operazione bloccò l’ambizione di Teheran di avere una Bomba per un paio di anni. Poi tornò tutto come prima. E quindi oggi una delle domande più importanti relative all’attacco alle strutture iraniane da parte di Israele dovrebbe essere: di quanto tempo Israele ha ritardato il programma nucleare iraniano?. 

 


Secondo l’esercito israeliano, gli attacchi dell’aviazione di ieri hanno distrutto la sezione sotterranea del sito di Natanz, quella che ospitava “la sala di arricchimento a più livelli con centrifughe, sale elettriche e altre infrastrutture di supporto”. Gli attacchi avrebbero distrutto anche “infrastrutture critiche che consentivano il funzionamento continuo del sito e il progresso del progetto di armi nucleari del regime iraniano”. Ieri il capo dell’Organizzazione per l’energia atomica iraniana, Mohammad Eslami, ha confermato l’attacco che però avrebbe provocato “solo danni superficiali”, ma le immagini satellitari verificate da media indipendenti dicono il contrario: per esempio, secondo il New York Times, ci sarebbero diversi edifici e infrastrutture energetiche “distrutti o gravemente danneggiati. Si vedono autopompe antincendio accanto a un grande edificio in fiamme, mentre da una sottostazione elettrica si levano colonne di fumo scuro. Inoltre, si notano quelli che sembrano essere diversi piccoli crateri da impatto”, probabilmente i luoghi in cui sono state sganciate le bombe di profondità. 

 


Oltre a Natanz, ieri Israele ha detto di aver colpito il  Centro di tecnologia nucleare nella città di Isfahan, un impianto di lavorazione  dove l’ossido di uranio diventa  tetrafluoruro di uranio (UF4) ed esafluoruro di uranio (UF6), composti  chimici usati  nelle centrifughe. Ieri mentre la risposta iraniana arrivava sui cieli israeliani, il  capo del Consiglio per la Sicurezza nazionale di Israele, Tzachi Hanegbi, negava in un’intervista a Kann di aver attaccato il più oscuro e importante sito nucleare iraniano, quello di Fordo: “Abbiamo attaccato Natanz e Isfahan. Non abbiamo attaccato Fordo”, considerato molto più difficile come target di un attacco tradizionale, perché costruito in profondità sotto una montagna a nord-est della città iraniana di Qom. Del segretissimo impianto  è stata ammessa l’esistenza solo nel 2009, quando i funzionari dell’Aiea furono ammessi nel paese. Fordo è la fortezza del nucleare iraniano, al centro dei negoziati del 2015. A differenza della Corea del nord, dove dopo l’espulsione del 2009 i funzionari dell’Onu non hanno più potuto fare sopralluoghi, Teheran ha ammesso il direttore dell’Aiea Rafael Grossi a Natanz e Fordo, l’ultima volta nel novembre del 2024, usando i sopralluoghi come arma negoziale mostrandosi aperta alla comunità internazionale, coprendo eventuali violazioni poi ammesse dalla stessa Aiea anche qualche giorno fa. 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.