La tentazione cinese di Trump

Giulia Pompili

Pechino vince la battaglia dei negoziati con la Casa Bianca, e diventa propaganda anche la California. Mayer: "Il presidente sta spingendo il proprio potere fino ai limiti della legalità, e probabilmente oltre"

Ieri il presidente americano Donald Trump ha detto di aver “concluso un accordo con la Cina”, che ora dovrà solo essere approvato da lui e dal leader cinese Xi Jinping. I media cinesi, sempre ieri, erano più cauti: il viceministro del Commercio cinese, Li Chenggang, ha detto ai giornalisti a Londra – dove si sono tenuti i colloqui – che “le due parti hanno raggiunto, in linea di principio, un accordo quadro per l’attuazione dell’intesa trovata dai due capi di stato durante la telefonata del 5 giugno e del consenso raggiunto durante i primi colloqui di Ginevra”.

 

 

La tregua sui dazi reciproci continuerà, dunque, ma per passare alla fase successiva l’Amministrazione americana è stata costretta a promettere alla Repubblica popolare che alcune restrizioni sulle esportazioni di materiale altamente tecnologico e sensibile, come semiconduttori e microchip, saranno eliminate. Inoltre, non saranno più revocati i visti agli studenti cinesi, una misura che era stata annunciata dal segretario di stato Marco Rubio. La precedente Amministrazione americana guidata da Joe Biden aveva posto limitazioni chirurgiche nel tentativo di rallentare la corsa della Cina verso una supremazia tecnologica. Ieri diversi osservatori evidenziavano come Pechino sia stata molto furba nei negoziati, mostrando a Washington le sue capacità di strozzare le catene di approvvigionamento vitali per l’industria americana di cui Pechino possiede un monopolio di fatto: secondo il Wall Street Journal le autorità cinesi stanno imponendo un limite di sei mesi alle licenze di esportazione di terre rare nel tentativo “di mantenere il controllo sulla fornitura di tali materie prime per i negoziati futuri”. Trump è stato costretto a enormi concessioni su un tema considerato di sicurezza nazionale, che finora non era mai stato messo sul tavolo dei negoziati fra Washington e Pechino. 

 


Il caos prodotto dalla Casa Bianca di Donald Trump, nei negoziati internazionali ma anche a livello interno, sta offrendo alla Cina una gigantesca occasione di propaganda. Ieri il Financial Times ha scritto che l’Amministrazione americana starebbe iniziando una revisione del patto Aukus del 2021 con il Regno Unito e l’Australia, mettendo a rischio ufficialmente l’accordo di sicurezza che era stato costruito, neanche troppo implicitamente, in funzione deterrente contro la Cina. Non solo: nei giorni scorsi diversi commentatori sui media cinesi hanno descritto la situazione in California come un’emergenza dovuta alla crisi della società americana ma anche del sistema di governo statunitense – giustificando naturalmente l’intervento diretto del potere centrale per “sedare le proteste”. L’influencer nazionalista cinese Kai the Peasant su X ha diffuso diverse immagini in cui paragonava la situazione in California ai manifestanti di Hong Kong, e scrivendo in un altro tweet, ironicamente, che “La Cina riconosce la politica di una sola America”, riferendosi alla politica dell’unica Cina che serve a Pechino per legittimare le sue mire su Taiwan, “ma se gli Stati Uniti invadessero la California, la Cina prenderebbe in considerazione l’invio di truppe per difenderla”. Ieri il sito Semafor rilanciava una notizia, apparsa sui media cinesi, secondo la quale mentre governo americano “espelle gli influencer” come l’italiano  Khaby Lame, la Cina sta promuovendo un nuovo programma per “finanziare le visite e le collaborazioni degli influencer americani con i loro omologhi locali”. La grande crisi del sistema americano provocata da Trump sta offrendo alla Cina una grande occasione: “Questo è un momento straordinario nella politica americana”, dice al Foglio Jeremy D. Mayer, docente alla Schar School of Policy and Government della George Mason University. “Il presidente sta spingendo il proprio potere fino ai limiti della legalità, e probabilmente oltre, nello scontro con la burocrazia federale, con il Congresso, la magistratura e adesso pure con lo stato della California”. In tempi politici normali, dice Mayer, “un governatore non si aspetterebbe mai che il governo nazionale nazionalizzi la Guardia nazionale, e cioè che la metta sotto la propria autorità per una crisi statale come una rivolta o un incendio boschivo. Quello è esattamente il compito di un governatore”. Nel caso più recente invece, Trump non solo ha attivato la Guardia nazionale ma ha pure inviato i Marine – proprio come avrebbe fatto Xi Jinping. “Non abbiamo mai assistito a un momento come questo nella lunga storia degli Stati Uniti. I paragoni più vicini risalgono all’epoca dei diritti civili. Ma quando il presidente Eisenhower mandò le truppe in Arkansas per imporre l’integrazione ai razzisti bianchi, stava difendendo la Costituzione e un’ordinanza della Corte suprema. Qui, Trump sta agendo da solo, e potrebbe essere in violazione della legge, se non della Costituzione stessa”. Il modello cinese potrebbe non reggere alla prova della democrazia americana, ma Trump sembra disposto a tutto. 

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.