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le testimonianze
L'inferno patito dagli ostaggi di Hamas usciti da Gaza (e da chi resta)
Dal cibo a chi legge il Corano, dall'omosessualità nascosta per non essere uccisi fino a chi vuole suicidarsi. Il racconto dei sopravvissuti alla prigionia dei tunnel a Gaza
La scorsa settimana la guerra di Gaza ha superato i seicento giorni. Per chi cammina in superficie e vede la luce del giorno, il traguardo è privo di significato, non diverso da 599 o 601. Ma nei tunnel di Hamas è diverso. “Quando avevamo fame nel cuore della notte, i rapitori hanno cercato di corromperci, dopo aver mangiato un solo pasto al giorno per molti giorni: ci hanno offerto del cibo a condizione che leggessimo versetti del Corano, ma ci siamo rifiutati”. Così Eli Sharabi, sopravvissuto alle torture e alla prigionia di Hamas per 500 giorni, all’Università di Tel Aviv ha raccontato la prigionia a Gaza, su cui ha appena scritto un libro. Sharabi, a cui hanno ucciso moglie e figlie, ha rivelato che il 7 ottobre il comandante della Brigata Gaza di Hamas ha ordinato ai terroristi di non fare donne e bambini prigionieri, ma di ucciderli sul posto e rapire solo uomini fino a quarant’anni.
Eli Sharabi ha anche raccontato che il tunnel in cui è stato tenuto aveva l’ingresso dentro una moschea di Gaza. Per Omer Shem Tov, tra gli ultimi ostaggi ad essere rilasciati prima della rottura del cessate il fuoco a marzo, è presente un senso di colpa costante. Ogni volta che mangia, pensa agli ostaggi che non mangiano. Ogni volta che fa la doccia, sa che quelli ancora prigionieri a Gaza non possono. “Lo sento qui”, dice Shem Tov alla Cnn, indicandosi la gola. “Mi sento come se mi stessero soffocando”. Ha perso 23 chili durante la prigionia. Il suo cibo è diminuito da sole due pite e un po’ di formaggio al giorno all’inizio a un singolo biscotto. Di 58 ostaggi israeliani ancora a Gaza, almeno 24 si ritiene che siano ancora vivi.
Israele ha appena pubblicato le inquietanti “foto trofeo” trovate su un hard disk di Hamas, scattate dal gruppo terroristico a Emily Damari durante un intervento chirurgico a Gaza il giorno del suo rapimento il 7 ottobrer. La si vede priva di sensi su un tavolo operatorio dell’ospedale al Shifa, con schizzi di sangue sull’hijab che era stata costretta a indossare. Un’altra immagine la mostra prigioniera in un abito bianco e nero lungo fino alle caviglie, con la mano sinistra insanguinata e fasciata. In un’intervista trasmessa dal canale israeliano 12, la ventottenne britannico-israeliana ha fornito il suo resoconto sulla violenza fisica, il peso psicologico e i piccoli atti di ribellione che hanno caratterizzato il suo calvario durato 471 giorni.
Il gioco con i pidocchi
Damari è stata rapita dalla sua casa nel kibbutz Kfar Aza il 7 ottobre, dopo aver ucciso il suo cane Chucha e ferendola durante l’attacco. Dopo essere stata trascinata a Gaza, Emily è stata portata in una casa e poi trasferita all’ospedale al Shifa, dove è stata sedata. Quando ha ripreso conoscenza, ha scoperto che le erano state amputate due dita.
Una volta sottoterra, Damari ha detto che le infestazioni di pidocchi sono diventate così comuni che ha inventato bizzarre gare per tenere alto il morale. “Raccoglievamo i pidocchi dalla testa delle persone, li mettevamo su una carta e guardavamo chi vinceva”.
Alla domanda se avesse mai pensato di togliersi la vita, Emily ha risposto: “Certo, avevo un piano”. Ha detto di aver tenuto nascosta la sua omosessualità per tutto il tempo, temendo le conseguenze se i suoi rapitori avessero scoperto che era lesbica.
“Non possono sapere una cosa del genere, la considerano una cosa malata”, ha detto Emily. “Una volta abbiamo chiesto a uno di loro: ‘E se tuo fratello fosse gay?’ e lui ha risposto: ‘Lo ucciderei’”. Intanto, in Italia, il mese del Pride è molto palestinese.