
La newsletter del dipartimento di stato americano sembra scritta da Orbán
Nel cuore delle istituzioni americane prende forma una crociata culturale contro l’Europa, simile a quella ungherese. Il gioco di specchi illiberali su cui Putin punta tutto
L’ultimo numero della newsletter su Substack che il dipartimento di stato americano ha aperto il 22 aprile scorso s’intitola “The Need for Civilizational Allies in Europe” e dice che i leader europei stanno portando avanti “un’aggressione costante alla civilizzazione occidentale”. La newsletter, spedita il 27 maggio, è stata redatta da Samuel Samson, senior advisor dell’Ufficio per la democrazia, i diritti umani e il lavoro del dipartimento di stato, che ha come obiettivo “la promozione dei valori americani, inclusi lo stato di diritto e i diritti individuali che permettono agli stati di essere più sicuri, più forti e più prosperi”. Samson ha fatto parte di una delegazione di cinque persone che, nel marzo scorso, era andata nel Regno Unito per un’indagine sulla libertà d’espressione per conto dell’Amministrazione Trump: di fatto, questa squadra di investigatori del pensiero è andata presso l’alleato britannico con l’intento di dimostrare che l’Europa, con le sue derive illiberali, è “la minaccia più grave” oggi, come aveva detto il vicepresidente americano, J. D. Vance, a febbraio durante la Conferenza di Monaco.
La newsletter di Samson è una riedizione di quel discorso, questa volta sotto l’intestazione del dipartimento di stato guidato da Marco Rubio, e oltre a difendere i partiti di estrema destra di Francia e Germania, il Rassemblement national e l’Alternative für Deutschland, dice: “Un’Europa che sostituisce le sue radici spirituali e culturali, che tratta i valori tradizionali come relitti pericolosi e che accentra il potere in istituzioni irresponsabili è un’Europa meno capace di resistere alle minacce esterne e al declino interno. A tal fine, la realizzazione della pace in Europa non prevede il rifiuto del nostro patrimonio culturale comune, ma un suo rinnovamento”.
L’America di Trump vede gli europei come degli approfittatori (“ci hanno trattato molto male”) illiberali, che ostacolano la pace. Che è quello che Viktor Orbán, premier ungherese, ripete da anni, e ha ripetuto inaugurando due giorni fa la Cpac, la conferenza dei conservatori che fa da cassa di risonanza al nazionalismo populista in tutto l’occidente (Trump ha inviato un video di un minuto, dicendo che Orbán è rispettato ovunque e che vuole bene a lui e all’Ungheria; c’erano solo due senatori americani presenti, sembra che questa misera partecipazione abbia un po’ preoccupato Budapest). Il sogno europeo è morto, ha detto il premier ungherese, Bruxelles l’ha trasformato in un incubo, tradendo la promessa di pace e di benessere.
Non è certo la prima volta che l’America trumpiana e l’Ungheria orbaniana usano le stesse parole – parole di miele per la Russia che non ha alcuna possibilità di vincere in Ucraina se non disintegrando l’unità europea – ma il gioco di specchi tra questi due paesi sta consumando il costrutto democratico occidentale a vista d’occhio, e con una scala che prima d’ora non si era mai vista. E lo fa in un momento in cui il potere di Orbán non è più così solido, ci sono un partito e un leader, Péter Magyar, che lo insidiano e questo cambia tutto, perché non siamo più soltanto di fronte alla proposizione aggressiva di un modello (illiberale) alternativo, ma a una lotta per la sopravvivenza, che rende tutti più brutali e spietati – l’incubo che vuole Vladimir Putin per l’occidente, e per l’Ucraina.

l'editoriale dell'elefantino