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I giudici nel regno di Trump
Il pericolo che da sempre risiede nell'esperimento americano e che mina l'equilibrio tra i poteri è che uno di questi, quello esecutivo, vada fuori controllo. La divisione ora è messa alla prova anche dalle barricate a livello federale e dall'incognita Corte suprema
Poveri padri fondatori degli Stati Uniti, in fondo vanno capiti e perdonati. Erano un gruppo di reduci di guerra di fine Settecento di varia estrazione, ben educati, con idee illuministe ma ancora legati all’aristocrazia inglese. Alcuni di loro erano proprietari di terre e di schiavi, altri commercianti e borghesi. Tutti quanti erano uniti dal desiderio di creare un nuovo stato che non dovesse più sottostare alla tirannia di un re e si dedicarono con passione a redigere una Costituzione innovativa. Un lavoro che in gran parte è stato un successo, visto che resiste da duecentocinquant’anni. Quello però che gli ex coloni della Virginia o del New England non potevano prevedere, quando hanno disegnato la più longeva democrazia della storia, era l’arrivo di qualcuno come Donald Trump. I checks and balances, i pesi e contrappesi che inserirono nella Costituzione e nelle leggi successive, hanno retto a tanti urti nel corso della storia, inclusa una guerra civile.
L’equilibrio tra i poteri esecutivo, legislativo e giudiziario ha tenuto abbastanza bene, regolato di tanto in tanto dall’intervento della Corte suprema o dal varo da parte del Congresso di un qualche emendamento alla Costituzione. Ma il pericolo che da sempre risiede nell’esperimento americano, evidenziato già nel 1835 da Alexis de Tocqueville nel suo “La democrazia in America”, è che uno dei tre poteri, quello esecutivo, vada fuori controllo. I fondatori lo avevano ben presente e avendo vinto da poco una guerra per liberarsi di re Giorgio, si erano impegnati a inserire dei limiti nella Costituzione ai poteri di quella nuova figura che era il presidente degli Stati Uniti. Ma non volevano esagerare e soprattutto volevano lasciare libertà di manovra al primo presidente, George Washington, di cui si fidavano ciecamente: sapevano che non sarebbe mai diventato un tiranno. Avevano ragione, ma la presidenza restò un potere incompiuto, affidato a prassi e tradizioni e alle sentenze della Corte suprema. Qualcuno, una volta arrivato alla Casa Bianca, ne ha approfittato, ma gli altri due poteri, il Congresso e la giustizia, hanno sempre riportato in un modo o nell’altro “in bolla” l’equilibrio americano.
Nessuno però aveva immaginato un Trump. Cioè l’arrivo di un presidente che con la giustizia ha avuto molti guai (non c’era mai stato un pregiudicato alla Casa Bianca) e che sta dedicando il proprio secondo mandato a un tentativo di enorme rafforzamento dell’esecutivo, con un contemporaneo attacco deliberato e quasi scientifico agli altri due poteri. In un altro momento, l’argine sarebbe stato il potere legislativo. Ma entrambe le camere del Congresso, in questo momento, non sono soltanto sotto il controllo dello stesso partito del presidente – è successo più volte nella storia e fa parte di un normale percorso democratico – quanto sotto una sorta di incantesimo da parte della Casa Bianca. Il partito di governo è soggiogato da Trump e incapace di qualsiasi critica o anche solo di una dialettica con l’esecutivo. Non c’è opposizione interna e il clima di intimidazione che circonda qualsiasi voce dissenziente fa tenere la testa bassa a deputati e senatori, che l’anno prossimo hanno il problema di farsi rieleggere nelle elezioni di Midterm e non vogliono trovarsi sulla lista nera di Trump. Le cose potrebbero cambiare dopo il voto di metà mandato, soprattutto se l’America fosse in forte crisi, ma probabilmente non prima. I democratici, da parte loro, si devono ancora riprendere dalla batosta elettorale di novembre e al momento sono impegnati a farsi la guerra internamente, in attesa che emerga un nuovo leader dopo la fine disastrosa degli anni di Joe Biden.
Ecco così che a quattro mesi dall’inizio della seconda Amministrazione trumpiana, l’America si sta trasformando in un duopolio: Trump contro i giudici. Che si tratti di immigrazione o del divieto per Harvard di reclutare studenti stranieri, di licenziamenti di massa di funzionari pubblici o di difesa dei diritti personali, i giudici sembrano per ora l’unico freno all’allargamento senza precedenti dei poteri del presidente. È un argine che ha i suoi limiti, visto che la giustizia agisce con tempi lenti rispetto alla raffica di ordini esecutivi della Casa Bianca e ne intercetta solo alcuni. Al momento comunque sembra delinearsi uno scenario che vedrà nei prossimi tre anni e mezzo uno scontro continuo tra esecutivo e giudiziario. Ma quanta reale libertà di manovra hanno i magistrati americani e fin dove possono spingersi, senza rischiare a loro volta di forzare la mano alla Costituzione? Bisogna ripartire dai padri fondatori, che avevano una pessima opinione non solo della Corona britannica, ma anche della mancanza di indipendenza dei suoi giudici, che agivano nelle colonie quasi sempre avendo in mente il fatto di essere prima di tutto sudditi del re d’Inghilterra. Quando fu disegnata la Costituzione, si mantenne la tradizione della common law britannica, ma fu inventato un apparato giudiziario nazionale – un’innovazione, tre le tante introdotte dai nuovi Stati Uniti – separato dalle corti locali dei vari stati. Oggi quindi l’America ha un doppio sistema giudiziario, quello federale e quello statale.
I giudici federali sono circa millesettecento, tra Corte suprema (nove), corti d’appello e distretti, e amministrano ogni anno circa 400 mila casi che hanno a che fare con la Costituzione e le leggi federali. I giudici statali sono circa 30 mila e gestiscono un milione di casi l’anno relativi a reati locali e a leggi dei singoli stati (a questi vanno aggiunti magistrati municipali e tribunali locali creati da alcuni stati). Nelle varie corti, federali e statali, agiscono poi 1,3 milioni di avvocati su scala nazionale. A completare il sistema è il vasto apparato burocratico che regola e gestisce l’attività giudiziaria, sotto il controllo nei vari stati del governatore e del suo team e a livello nazionale dell’Attorney General, il ministro della Giustizia. Una figura, quest’ultima, che guida un ministero da 115 mila persone e che nel corso dei decenni ha sempre goduto di ampia autonomia anche dalla Casa Bianca, contro la quale non di rado ha attivato indagini guidate dall’Fbi, il braccio investigativo del sistema federale. Ma anche questa tradizione è in discussione negli ultimi tempi, con la Giustizia controllata da una fedelissima di Trump come Pam Bondi e l’Fbi che per la prima volta ha un direttore e un vice, Kash Patel e Dan Bongino, entrambi voluti direttamente dalla Casa Bianca (di solito almeno il vice era un funzionario di carriera scelto internamente).
I giudici statali, distribuiti tra tribunali locali, corti d’appello e corti supreme statali – un’architettura che replica sostanzialmente quella federale – sono in gran parte eletti dal popolo. Gli aspiranti giudici si candidano nelle stesse elezioni nelle quali a livello locale si scelgono i sindaci o gli sceriffi e possono presentarsi sia sotto le insegne di un partito, sia come indipendenti. Ovviamente l’America, con i suoi cinquanta stati tutti orgogliosamente fieri delle proprie tradizioni, ha altrettante varianti sulle modalità di scelta dei giudici e dei procuratori locali: si va da stati che non ammettono l’affiliazione partitica, ad altri dove le nomine le fa il governatore (ma poi vanno ratificate dal Senato locale), ad altri ancora che creano commissioni non legate ai partiti, che selezionano le candidature da sottoporre al governatore o agli elettori. Se questo è il mondo un po’ caotico della giustizia statale, quando si parla di “giudici che si oppongono a Trump” si tratta però in prevalenza di quelli federali. Sempre per volere della Costituzione, ciascuno di essi è nominato dal presidente e confermato dal Senato, ma gode di ampia autonomia perché la nomina è praticamente a vita e non può essere ritirata.
Un giudice federale, a meno di dimissioni volontarie, può essere rimosso solo con il procedimento dell’impeachment, lo stesso previsto per far decadere il presidente. Un percorso complesso, che passa da un’indagine della Camera e da un voto ad ampia maggioranza in Senato. Anche se a sceglierli è la Casa Bianca, i giudici federali sono quindi ben protetti e nel corso degli anni le sentenze della Corte suprema hanno rafforzato il loro ruolo, anche quando erano dedicate ad altro. Il “caso Dred Scott” (1857), una delle più scandalose sentenze della storia americana, ebbe per esempio come effetto collaterale quello di definire bene l’enorme importanza che i giudici federali assumevano da quel momento in poi nel pronunciarsi su casi nazionali. E’ paradossale che sia stata una sentenza che escludeva i neri dal diritto di cittadinanza previsto dalla Costituzione ad aver posto le basi per dare ai giudici il potere, in seguito, di orientare il cammino del paese in tema di diritti civili.
La Casa Bianca però ora cerca di ridurre il raggio d’azione dei giudici federali e per farlo sta usando di nuovo un caso legato al diritto di cittadinanza. Un ordine esecutivo di Trump punta a cambiare il senso del quattordicesimo emendamento alla Costituzione, che prevede il diritto di cittadinanza per chiunque nasce sul suolo americano. L’Amministrazione vuole invece che questo diritto sia negato ai figli di immigrati che non abbiano documenti in regola. I giudici federali hanno respinto subito come anticostituzionale questa interpretazione e il caso è scalato rapidamente fino alla Corte suprema, dove è accaduto qualcosa di insolito: i legali della Casa Bianca hanno scelto di non difendere l’ordine esecutivo di Trump, ma di approfittare del caso per chiedere alla Corte di cancellare il potere di un singolo giudice federale di emettere sentenze che valgano su tutto il territorio nazionale.
E’ evidente che in questo caso, come in quelli degli ordini esecutivi per espellere senza processo i membri di gang criminali, l’obiettivo del team di Trump è quello di mettere sotto tensione il sistema della giustizia federale e portare più casi possibili in Corte suprema, dove esiste una maggioranza conservatrice di sei a tre, ma dove il voto dei giudici, anche dei tre scelti da Trump nel suo primo mandato, non è per niente scontato. Nel caso dell’immigrazione, la Casa Bianca cerca di farsi dare dalla massima Corte il via libera a usare il potere esecutivo per applicare in modo indiscriminato l’Alien Enemies Act, una legge del 1798 che era pensata per espellere i “nemici stranieri” presenti sul suolo americano in tempo di guerra: ora invece Trump vorrebbe usarla per le “deportazioni di massa” che ha promesso in campagna elettorale. I giudici federali sono l’unico ostacolo al progetto e il governo cerca quindi di ridurre il loro potere.
Quanto sia intenso e duro lo scontro, lo dimostrano le parole che ha scritto nei giorni scorsi il giudice federale di Washington Richard Leon in una sentenza importante, quella che vede contrapposti Trump e lo studio legale WilmerHale. Si tratta di uno dei grandi studi di avvocati che la Casa Bianca ha preso di mira con specifici ordini esecutivi, accusandoli di aver fatto un qualche torto al presidente negli anni passati o semplicemente di aver lavorato per i suoi avversari politici. Si tratta di ordini che rappresentano un danno reputazionale ed economico enorme per gli studi legali, che vengono indicati dalla Casa Bianca come “nemici” e in un attimo rischiano di perdere clienti importanti. Qualche grossa firma ha chinato il capo e cercato accordi con il governo, pagando risarcimenti con molti zeri. Adesso però altri studi hanno deciso di resistere e di sfidare gli ordini presidenziali nelle corti federali.
Lo hanno fatto nomi importanti come Perkins Coie, Jenner & Block e ora WilmerHale e uno dopo l’altro stanno vincendo, ottenendo decisioni in cui i giudici attaccano apertamente le mosse della Casa Bianca come incostituzionali. Il giudice Leon, un magistrato di lunga esperienza nominato nel 2001 dal presidente George W. Bush, è stato particolarmente duro e le 73 pagine della sua sentenza, insolitamente piene di punti esclamativi, stanno ora girando nell’ambiente legale come una sorta di manifesto. “La pietra angolare del sistema giudiziario americano – ha scritto Leon – è una magistratura indipendente e un collegio forense indipendente, disposti ad affrontare casi impopolari, per quanto intimidatori. I padri fondatori lo sapevano! Di conseguenza, si sono impegnati a sancire nella Costituzione alcuni diritti che sarebbero serviti da fondamento per tale indipendenza”. “Non c’è da stupirsi – ha aggiunto Leon – che nei quasi 250 anni trascorsi dall’adozione della Costituzione non sia stato emesso alcun ordine esecutivo che mettesse in discussione questi diritti fondamentali”. Adesso invece che per la prima volta in 250 anni questi diritti vengono apertamente sfidati, i giudici si apprestano ad alzare le barricate.



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