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In Inghilterra
A Londra il maschio bianco è sparito. È la società multietnica, bellezza
Le pubblicità nelle metro sono dominate da volti afro-orientali o da donne. Un immaginario urbano che celebra la diversità, ma cancella simboli e tratti della cultura britannica
Vuole la paleontologia che l’uomo di Neanderthal – variante più scimmiesca (e pare meno intelligente) dell’attuale specie maggioritaria sul pianeta Terra, l’Homo sapiens – si estinse 40mila anni fa. In quella città parallela e sotterranea che è la Tube (metropolitana) di Londra, un’altra specie animale sta scomparendo (anche se non fisicamente): l’homo Europaeus, variante etnico-culturale dell’homo Sapiens. Lungo le velocissime e infinite scale mobili che portano a 20-30 metri sotto al livello della strada, sfilano centinaia di avvisi pubblicitari. Sulle banchine, i cartelloni occupano tutte le volte e sono pure immensi. Le gigantografie di Bohoo, abbigliamento di moda che è ovunque nella metro, ha solo modelli neri. Sarà forse perché vende tute da rapper, hip-hop e dintorni, cultura urbana nata ad Harlem negli anni 80. Dalle app per trovare un falegname, all’ennesima barretta energetica; dal whisky alla nuova banca digitale appena nata, c’è tutto il mondo in vetrina. Eppure, non si trova più un uomo bianco, dai capelli biondi e gli occhi azzurri. Il britannico, discendente dei Celti, poi dei Norsemen (il nome medievale dei Vichinghi) e infine gli anglo-sassoni, le tre etnie che hanno plasmato l’isola oltre la Manica, è scomparso. Ma non si trova nemmeno un mitteleuropeo, un olivastro dai capelli scuri italiano-spagnolo-greco; né un più glabro e chiaro teutonico-franco-fiammingo. Sono tutti stati sostituti da modelli africani o mediorientali o la qualunque purché non europei.
Colpa di un inconscio bias razzista? No. Alla stazione ferroviaria di Waterloo, che ricorda quando il britannicissimo duca di Wellington sconfisse Napoleone, la pubblicità del Portrait of Britain, il più prestigioso premio fotografico del paese, sfoggia un indiano Sikh come esempio di ritratto del paese. Lungo le fiancate dei britannicissimi double decker, gli autobus rossi a due piani, simbolo di Londra, la pubblicità della nuova bibita Wako, ha un africano sovrappeso. Nei vagoni della metro, il manifesto accanto a quello di Wako, è una crema per il viso, chiamata Face Glue, ma il viso non assomiglia per niente a una Marianne Faithfull, la scomparsa musa di Mick Jagger: è nero. Non è mica finita: un altro cartellone informa che c’è una nuova salsiccia di maiale, la marca è “This isn’t pork sausages”. E’ un wurstel vegano senza carne, ma che sa di carne: il testimonial è un rasta. Ma perché? E poi, associare la “finta” salsiccia alla griglia con un africano non rasenta il razzismo gastronomico? Ma ormai per la “cancel culture” vale tutto: l’importante è l’iconoclastia del maschio bianco.
Lo stilema dominante oggi nel mondo del marketing, nel cuore dell’Europa, è donna; gli uomini sono pochissimi, ma soprattutto tutti di etnia afro-orientale. “E’ la società multietnica, bellezza” avrebbe detto oggi Orson Welles. L’antica Londinium, che l’imperatore Claudio fondò sulle rive del Tamigi, oggi conta otto milioni di abitanti ed è la massima espressione urbana della società multietnica. E dunque anche la pubblicità deve riflettere questa “diversità”, diventata il canone di misura dell’Europa che si vergogna del suo passato (e invece non dovrebbe). Ma le statistiche ufficiali dicono che le minoranze etniche, assurte a deità da adorare, sono appunto minoranze. Londra e la Gran Bretagna, nonostante l’immigrazione secolare, sono un paese a maggioranza “occidentale”: all’ultimo censimento nazionale, nel 2021, la popolazione di pelle bianca era al 74,4 per cento. Va bene l’inclusione, ma il paese riflesso nelle pubblicità è una discriminazione al contrario.
L’autopersecuzione raggiunge vette sublimi: agli arrivi del Terminal 5 all’aeroporto di Heathrow, tutto occupato da British Airways, salta all’occhio un gigantesco cartellone della compagnia aerea. Si vede una lunga fila di finestrini vuoti e un solo uomo che guarda fuori, ammirato. Manco a dirlo, anche il viso scelto dalla compagnia di bandiera, che ha pure “British” nel nome, è un africano. Viva la diversità, ci mancherebbe. Ma che, per chi arriva nella Perfida Albione, ad accoglierlo trovi un immigrato, non ha senso.
Per decenni la pubblicità è stata il pilastro del commercio. Da Philip Kotler, il padre del marketing, in poi lo scopo della “réclame” è stato convincere le persone a comprare un prodotto. La massaia degli anni 80 acquistava il Dash perché glielo consigliava Mike Bongiorno, mica perché davvero “lavava più bianco di tutti”. Nelle viscere di Londra, lungo le centinaia di corridoi tappezzati di cartelloni, il più grande concentrato di comunicazione al mondo, è nato un nuovo paradigma: la pubblicità oggi non serve più per vendere. No, oggi la pubblicità fa “politica”, serve per imporre modelli culturali e sociali, per rendere accettabile la cancellazione della propria identità. Tempo fa Tinder, la famosa app da “una botta e via”, per scrollarsi di dosso l’immagine di sito per incontri mercenari, aveva inondato le stazioni di pubblicità per dimostrare che su Tinder si trovava anche l’amore, mica solo il sesso facile. Si vedeva una coppia di fidanzati romanticamente sotto la Luna: erano due donne, di cui una nera perché due donne bianche omosessuali non era abbastanza: faceva ancora troppo occidentale o “tradizionale”.
A Londra il maschio bianco, caucasico eterosessuale, è stato cancellato dalla realtà alternativa imposta dalla pubblicità. Non sia mai poi che quel maschio sia poco poco cristiano o padre di famiglia. Quello è proprio estinto. E pensare che, vuole sempre la paleontologia l’homo Sapiens, sapiente perché in grado di costruire armi più letali, sterminò l’uomo di Neanderthal, specie concorrente ma meno progredita. L’homo Insipiens della inclusiva civiltà occidentale sarà ricordato, invece, per aver sterminato il buon senso. E con esso, forse, anche l’intelligenza.


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