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Caso Almasri: cosa non torna nella memoria difensiva inviata dall'Italia alla Cpi

Ermes Antonucci e Luca Gambardella

Il Foglio ha visionato la risposta inviata dal governo italiano alla Corte penale internazionale sul mancato arresto del comandante libico. Restano gli interrogativi. La mancata interlocuzione con l’Aia, il mistero sull’estradizione, il ruolo delle milizie e il futuro incerto della Libia

Sono due le ragioni principali con cui il governo italiano, nella memoria inviata alla Corte penale internazionale (Cpi), visionata dal Foglio, ha giustificato la mancata esecuzione lo scorso gennaio del mandato di arresto per crimini contro l’umanità che era stato emesso dalla Corte dell’Aia nei confronti di Osama Njeim Almasri, capo della Polizia penitenziaria libica, fermato in Italia il 19 gennaio e poi rimpatriato in Libia due giorni dopo. Entrambe le giustificazioni italiane risultano essere poco convincenti sul piano fattuale e giuridico.

 

Il governo  spiega in primo luogo di non aver potuto dare seguito al mandato d’arresto perché questo era caratterizzato da “incongruenze” rispetto alla data dei gravi crimini commessi da Almasri: i crimini di guerra e contro l’umanità, compresi omicidi, torture e violenze sessuali, sarebbero iniziati nel 2011, ma in alcune parti del mandato d’arresto la Cpi indica come data il 2015. Per il governo italiano (e per il Guardasigilli Carlo Nordio, che già aveva puntato su questo tema in Parlamento) si tratta di un grave errore, che compromette un elemento essenziale della richiesta di arresto. 

 

In realtà, si è di fronte a meri errori tipografici, corretti dalla Corte dell’Aia con l’emissione di una versione aggiornata del mandato d’arresto il 25 febbraio (quando ormai però Almasri era già stato rimpatriato in Libia). A ogni modo, il compito di far notare questi vizi di forma non spettava al ministro della Giustizia italiano, bensì al difensore di Almasri. Peraltro, al primo mandato di cattura della Cpi era stata allegata una nota nella quale si invitava il governo a contattare prontamente la Corte qualora fossero sorte questioni che potevano impedire l’esecuzione dell’arresto. Il governo, però, non ha mai contattato la Corte per chiedere chiarimenti sugli errori delle date. 

 

La seconda ragione sollevata dal governo italiano per spiegare il mancato arresto di Almasri riguarda una (presunta, vedremo perché fra poco) concomitante richiesta di estradizione dello stesso Almasri giunta dalla Libia. Poche ore dopo il fermo del comandante libico a Torino, le autorità libiche – tramite l’ambasciata in Italia – avrebbero informato il nostro ministero degli Esteri, e di conseguenza anche quello della Giustizia, dell’esistenza di un’indagine in Libia a carico di Almasri per gli stessi reati oggetto del mandato di arresto della Cpi, avanzando così richiesta di estradizione dell’indagato. “In presenza di una richiesta concorrente, l’Italia è stata chiamata a valutare quale richiesta avrebbe dovuto avere la priorità”, si legge nella memoria inviata dal governo alla Corte dell’Aia, che richiama l’articolo 90 dello Statuto di Roma. L’articolo citato, in verità, stabilisce che in caso di richieste concorrenti (una richiesta di consegna da parte della Cpi e una richiesta di estradizione da parte di un altro stato), lo stato deve dare precedenza alla richiesta giunta dalla Cpi. 

 

E’ probabilmente anche per questo motivo che il governo italiano nella sua memoria va persino oltre, giungendo ad affermare che, poiché nel mandato di arresto internazionale non si faceva alcuna menzione dell’esistenza di un’indagine in Libia nei confronti di Almasri, il mandato della Cpi era da considerarsi inammissibile ai sensi dell’articolo 17 dello Statuto istitutivo della Corte dell’Aia. Insomma, anche in questo caso il governo italiano si spinge incredibilmente a giudicare la correttezza – e addirittura l’ammissibilità – della richiesta di cattura della Cpi, senza però avviare alcuna interlocuzione con essa. 

 

Già questi elementi sono sufficienti a far risultare molto fragile la posizione del governo italiano. Emerge infatti in modo ancora più evidente che la mancata esecuzione del mandato d’arresto internazionale non sia stata dovuta a un cavillo giudiziario, ma a una chiara volontà politica del governo.

 

Come se tutto ciò non bastasse, domenica scorsa il premier libico Abdulhamid Dabaiba ha scaricato Almasri e ha smentito la linea difensiva dell’Italia con un discorso alla nazione. “Non ho cercato di estradarlo, non so chi sia e non l’ho mai incontrato. Come possiamo fidarci di un uomo che ha stuprato una ragazzina di 14 anni?”, ha detto riferendosi ad Almasri. La richiesta di estrazione, dunque, citata dall’Italia nella sua risposta alla Cpi, non sarebbe mai esistita.

 

Ormai la vicenda si inserisce nella crisi  che da due settimane sta trascinando la Libia sull’orlo di una nuova guerra civile e in cui il capo della Polizia giudiziaria è diventato la carta della disperazione per Dabaiba. Mai prima d’ora il premier aveva speso una parola sulla vicenda, dato che Almasri non ricopre ruoli di spicco e il suo destino non rientrava in cima alle priorità. Le cose sono cambiate in questi giorni, quando Dabaiba ha rischiato – e rischia tuttora – che i combattimenti di Tripoli, da lui stesso innescati, possano costargli la presidenza, nella migliore delle ipotesi. 

 

Domenica il premier ha ammesso che alcune milizie avrebbero esercitato delle pressioni per ottenere la liberazione di Almasri, un fatto che, in realtà, era acclarato da tempo. Subito dopo l’arresto del capo della Polizia giudiziaria, il suo superiore, Abdul Rauf Kara, leader della milizia Rada, si era presentato nell’ufficio di Dabaiba per chiedergli di attivarsi con l’Italia e ottenere il rilascio di Almasri. Per evitare una spaccatura con il leader della milizia che controlla l’aeroporto di Mitiga, Dabaiba ha acconsentito e nel giro di poche ore Almasri ha fatto ritorno in Libia. “Ma il problema per il premier o per Kara non è mai stato Almasri in sé, bensì il rischio di creare un precedente”, spiega Jalel Harchaoui, esperto di Libia del Royal United Services Institute, un think tank britannico. “Se Dabaiba non fosse intervenuto per liberare Almasri, gli altri capi delle milizie ricercati dalla Corte penale e alleati del premier non avrebbero reagito bene”. 

 

A questa delicatissima situazione si è aggiunto il clamoroso annuncio di un accordo di cooperazione tra la Cpi e la Libia. Giovedì, il procuratore generale dell’Aia, Karim Khan, ha detto che il governo libico si è reso disponibile a riconoscere la giurisdizione della Cpi e, alla luce di questa disponibilità, Khan ha chiesto al procuratore di Tripoli, Siddiq al Sour, “di arrestare Almasri e consegnarlo alla Corte”. Un’eventualità che però resta lungi dal concretizzarsi perché Dabaiba non dispone dell’autorità sufficiente. Lunedì, il Parlamento di Tobruk ha ricordato che il mandato del premier è scaduto da tre anni e quindi non ha l’autorità per siglare accordi internazionali con l’Aia. Prima ancora, era stato Mohamed al Menfi, presidente del Consiglio presidenziale libico, a opporsi agli ordini dati da Dabaiba affinché la Rada fosse sciolta e Almasri fosse rimosso dal suo incarico. Risultato: la Rada è ancora a Mitiga e Almasri occupa ancora il suo posto. 

 

A far diffidare delle buone intenzioni di Dabaiba c’è anche il fatto che lo stesso entourage del premier libico è nel mirino della Cpi. A oggi, si sa che sono già stati emanati undici mandati di arresto segreti, ovvero senza svelare i nomi dei destinatari. Di questi, sette riguardano miliziani vicini a Dabaiba stesso. Ci sarebbe poi un’altra ottantina di nomi di altrettanti indagati, personaggi che dal caso Almasri in avanti vivono nel timore di fare la sua stessa fine, nel caso in cui dovessero uscire dalla Libia. 

 

Come interpretare allora la volontà di Dabaiba di collaborare con la Corte, se questa decisione rischia di innervosire i capi delle milizie suoi alleati? Per prendere il controllo dell’intera Tripoli e sottrarsi al ricatto delle milizie, la settimana scorsa il premier ha prima fatto fuori Abdul Ghani al Kikli, alias Ghnewa, per poi tentare l’offensiva contro la Rada e la Polizia giudiziaria, di cui fa parte Almasri. Quest’ultima parte del piano di Dabaiba è fallita per la risposta violenta della Rada e perché migliaia di persone sono scese in strada in questi giorni per chiedere le dimissioni del governo. “Accusando Almasri pubblicamente, il premier cerca una versione della storia che gli permetta di giustificare i suoi attacchi recenti lanciati contro la Rada e contro la Polizia giudiziaria sedando la rabbia dei libici”, spiega Harchaoui. Da Tripoli, molti interpretano il gesto del premier come un ultimo disperato tentativo di restare al proprio posto, magari salvando la pelle. Per venerdì prossimo è prevista una nuova, violenta manifestazione a Tripoli contro il premier, mentre si parla di incontri segreti e alleanze sempre più strette fra i capi milizia – in particolare fra Kara e il leader delle Guardie rivoluzionarie, Haitham Tajuri – che non aspettano altro che fare fuori Dabaiba, in un modo o nell’altro. 

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