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L'analisi

I dettagli che Israele nota di più nella visita mediorientale di Trump

Sharon Nizza

L’operazione di Gerusalemme contro Mohammed Sinwar e le attese su Trump, deciso a plasmare una nuova architettura mediorientale. Ma lo stato ebraico, sempre più isolato, rischia di essere tagliato fuori dai nuovi equilibri regionali. Le frasi, le attese e le analisi degli israeliani

Gerusalemme. Come nel caso dell’ultima tregua tra Israele e Hamas scattata il 19 gennaio, calcio d’avvio del nuovo mandato, anche questa volta il turbine Trump in medio oriente ha portato a un nuovo sblocco nello stallo in corso dal 18 marzo, con il rilascio lunedì dell’ostaggio Edan Alexander come “tributo” di Hamas al presidente americano. Un gesto che rivela retroscena critici, perché frutto di una trattativa diretta tra Stati Uniti e Hamas di stanza a Doha e perché Alexander è l’unico ancora vivo tra i cinque ostaggi con cittadinanza americana. “America first” vale anche per i 58 ostaggi ancora a Gaza.
Mentre Trump si imbarcava per Riad, i suoi inviati Steve Witkoff e Adam Boehler atterravano in Israele per accogliere il ventunenne liberato e per rassicurare gli israeliani: anche se Gerusalemme non è sulla mappa del tour mediorientale, il presidente non vi sta abbandonando.

   
I due hanno incontrato a Tel Aviv i famigliari degli altri ostaggi, garantendo che “il presidente non tollererà altro che il ritorno di tutti” secondo Witkoff, che ha aggiunto anche una reprimenda: “Quando litigate tra di voi e non mostrate coesione sociale, sapete chi vi guarda? Hamas. Ecco perché è necessario essere uniti: ho visto dati di intelligence che mostrano che quando non siete uniti come società, questo danneggia i nostri sforzi”. Da Gerusalemme, i due inviati si recano ora a Doha, dove hanno offerto di portare anche il ventunenne Edan per una photo opportunity gradita dal presidente – ma soprattutto dal premier qatarino, lo stesso che ospita la leadership dell’organizzazione terrorista che lo teneva ostaggio fino a ieri. Il giovane soldato rilasciato dopo 584 giorni di prigionia ha declinato la cinica offerta. Chi li aspetta in Qatar è invece la delegazione inviata da Netanyahu per riprendere i negoziati.
Nell’ampio spettro delle speculazioni, sembra delinearsi ora la possibilità di replicare il modello (fallito) della tregua precedente: una prima fase di 40 giorni con scambio di un certo numero di ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi, e una seconda fase che dovrebbe chiudere il conflitto affrontando il grande tema del “giorno dopo” a Gaza. Per ora, gli unici fatti certi sono che a breve riprenderà il flusso degli aiuti umanitari nella Striscia, con un meccanismo che vedrà per la prima volta un coinvolgimento massivo degli Stati Uniti come garanti che non arrivino nelle mani di Hamas. E che Israele continua a minacciare la ripresa di una fase intensiva di combattimenti via terra, per cui sta richiamando migliaia di riservisti.

 
Ma bisogna guardare a quello che accade oltre l’area “dal fiume al mare” per cercare di capire quale partita stia giocando Trump: un altro fatto estremamente significativo sono i colloqui indiretti Usa-Iran sul nucleare, che hanno portato a un primo risultato concreto, ossia il cessate il fuoco con gli houthi, lasciando però Israele fuori dalla trattativa. Inoltre, la Casa Bianca ha confermato che Trump “ha accettato di salutare il presidente siriano mentre sarà in Arabia Saudita”, dopo settimane di corteggiamenti da parte di Ahmad al Sharaa, con tanto di promessa di costruire una Trump Tower a Damasco. Intanto Trump ha annunciato la fine delle sanzioni a Damasco. 

 
Si vocifera poi che Trump starebbe valutando l’accordo sul nucleare civile saudita in cambio degli investimenti senza precedenti di Riad negli States annunciati ieri: questo è sempre stato considerato il premio che gli Stati Uniti avrebbero garantito a Mohammed bin Salman come parte del “pacchetto di normalizzazione” con Israele. Ma ora, un Israele che non esce dal pantano di Gaza, potrebbe non essere più parte del deal, se Trump implementasse “America first” anche in questo frangente. Se aggiungiamo fughe di notizie non certificate sulla possibilità che Trump si pronunci rispetto al riconoscimento di uno stato palestinese, non c’è da stupirsi se Israele guarda con preoccupazione alla visita di cui pare sia diventata mera spettatrice. 
Un sentimento ben espresso in un comunicato della Coalizione per la sicurezza regionale, un forum che riunisce analisti, ex diplomatici e imprenditori israeliani di primo piano, che invita il governo israeliano “a non perdere l’occasione storica avanzata dal presidente Trump per cambiare il medio oriente”. L’occasione storica, dice al Foglio Udi Dekel, tra i promotori della Coalizione e vicedirettore del centro di ricerca Inss, sarebbe la volontà di Trump di “creare una coalizione con i paesi arabi moderati che porti avanti progetti ingenti come l’Imec (l’ambizioso corridoio economico che vuole collegare l’India e l’Europa passando per Golfo, Giordania e Israele, ndr). Ma ora Israele rischia di non essere più presa in considerazione, perché è concentrata solo su come sconfiggere Hamas, perdendo la ‘big picture’. La sensazione è che siamo passati da risorsa a fardello per Trump. Netanyahu è di fronte a un dilemma: i sauditi chiedono la fine della guerra e una dichiarazione rispetto al futuro di uno stato palestinese. Il governo israeliano non sta facendo nulla per pensare al ‘giorno dopo’ e perde l’occasione di essere parte dell’architettura di un nuovo medio oriente. E non è detto che si ripresenterà più avanti”. Cosa dovrebbe fare Netanyahu? “Dovrebbe dire: vogliamo far parte di una grande coalizione regionale, per questo fermiamo la guerra in cambio di tutti gli ostaggi e del disarmo e della resa di Hamas”, dice Dekel. Anche Abu Mazen, continua l’esperto, non vuole tornare a Gaza senza che Hamas non rappresenti una minaccia, è un interesse comune su cui si può lavorare.

 
Tuttavia, il nodo del ruolo futuro di Hamas è tutt’altro che sciolto finora. Per questo, c’è chi invece crede che il presidente americano voglia più che altro parlare di  business nel Golfo, rimandando a più avanti le dichiarazioni più spinose. “Trump ha evitato i paesi instabili in questa visita: Turchia, Egitto, Israele. I grandi progetti multilaterali – come la normalizzazione – sembrano accantonati per ora e il segnale vuole anche essere che il nuovo centro gravitazionale in medio oriente per l’America è il Golfo”, dice al Foglio Ghaith al Omari, fellow del Washington Institute. “Il riconoscimento della Palestina è una carta che si può giocare una volta sola, non credo che ci siano le circostanze perché ciò avvenga ora. Sul fronte di Gaza, probabilmente Trump vorrà verificare con Bin Salman la sua predisposizione verso l’Autorità nazionale palestinese come attore nello scenario post guerra”.

 
Va ricordato che Trump e Abu Mazen ruppero i rapporti nel 2018, dopo lo spostamento dell’ambasciata americana a Gerusalemme, e il presidente palestinese rigettò con sdegno l’“accordo del secolo” presentato nel gennaio 2020 da Trump, con accanto Netanyahu, che prevedeva il riconoscimento di uno stato palestinese, e in parallelo, de facto, l’annessione del 30 per cento degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, con compensazioni territoriali. Non è detto che quel piano che allora sembrava improponibile, non torni a essere rilevante nel medio oriente post 7 ottobre, che possa accontentare l’erede al trono saudita quando dice che non può aprire a Israele senza un impegno, anche solo a livello dichiarativo, per un “percorso verso uno stato palestinese”. Ora però è il Netanyahu post 7 ottobre che non può pronunciare queste parole senza fare cadere la coalizione, ma soprattutto senza garanzie rispetto alla condizione chiave – anche per Abu Mazen stesso – per la ripresa di qualsiasi dialogo costruttivo: la resa di Hamas.

 
Su questo punto il team negoziale guidato da Witkoff non ha ancora ottenuto risultati concreti. A tutti è chiaro che Hamas, seppur stremato da 19 mesi di guerra, continuerà a esistere a Gaza come branca locale della galassia dei Fratelli musulmani (ora banditi anche in Giordania, oltre che in Egitto, Emirati e Arabia Saudita), quindi si tratta di trovare una formula che possa rappresentare l’“immagine della vittoria”, consapevoli che il lavoro di ricostruzione di una nuova amministrazione civile a Gaza sarà lungo e intricato, come configurato nelle oltre 100 pagine del piano egiziano presentato a marzo: quell’immagine necessaria per dire “voltiamo pagina” potrebbe essere l’esilio o l’eliminazione di Mohammed Sinwar, fratello dell’architetto del massacro del 7 ottobre, di cui ha ereditato la leadership nella Striscia. Sinwar era l’obiettivo dell’attacco di ieri sera ai tunnel sotto l’ospedale europeo di Khan Younis, ma non c’è ancora la conferma ufficiale del successo dell’operazione. La sua uscita di scena potrebbe cambiare tutto. In parallelo, si sta studiando un meccanismo gestito dagli egiziani, con supervisione americana e fondi dal Golfo, che dovrebbe seguire la transizione di Hamas a movimento politico disarmato. Se Trump dovesse fare dichiarazioni in tal senso dal Golfo, potremmo assistere a un rimescolamento inaspettato delle carte. Altrimenti, dopo una nuova prima fase di tregua, è probabile che Israele andrà avanti con la minacciata operazione su vasta scala a Gaza, con un backup americano quantomeno temporaneo.

 
A placare gli animi israeliani nei giorni scorsi rispetto alle tensioni tra i due paesi è stato Mike Huckabee, il potente predicatore evangelico, già governatore dell’Arkansas, e neo ambasciatore di Trump in Israele, in interviste a tutti i tg israeliani, in cui ha mandato i seguenti messaggi: Netanyahu e Trump sono coordinati. Hamas non ha futuro a Gaza. Il futuro di Gaza prevede un coinvolgimento dei paesi del Golfo nella ricostruzione di quella che potrebbe essere Singapore e invece è Haiti. E un messaggio mirato per i giornalisti: “C’è una cosa che ho imparato negli anni: chi sa non parla. Chi non sa parla”. E, se dobbiamo andare con questo criterio, a Gerusalemme c’è uno che sa moltissimo, forse più di tutti, e non parla quasi mai: Ron Dermer, il ministro degli Affari strategici, braccio destro di Netanyahu da due decenni, punto di contatto con l’Amministrazione Trump. In una rara apparizione pubblica a un convegno la settimana scorsa ha fornito un titolo ignorato dai più: “Tra dodici mesi da oggi la guerra dei sette fronti che Israele combatte dal 7 ottobre sarà finita. Israele avrà vinto e vedremo molti accordi di pace”. C’è coordinamento tra Washington e Gerusalemme? Oppure Trump ha perso la pazienza anche con Netanyahu e guarda ad altri orizzonti mediorientali? L’esito della settimana nel Golfo potrebbe darci qualche indicazione concreta in merito.

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