Bill Gates (Ansa)

Il mondo tech

Bill Gates, lo zio d'America

Giulio Silvano

È l’unico tra i miliardari tech a non essersi convertito al trumpismo. Rimane fuori dalla ciurma che alcuni chiamano "tecnofeudatari" o "broligarchi" ospitati ai festini di Mar-a-Lago con dj Trump in consolle. Ritratto amichevole di un “buonista” vecchio stile 

Jesse Eisenberg, l’attore hollywoodiano che ha interpretato Mark Zuckerberg nel film “The Social Network”, ha detto che soffre sapendo che la gente lo associa al creatore di Facebook. Qualche anno fa a “Saturday Night Live”, tempio della commedia televisiva statunitense, i due si erano incontrati per uno sketch. Eisenberg aveva comicamente ripreso il suo ruolo sul palco newyorkese senza problemi. Allora Zuck era ancora accettato, era stato un vero prototipo del giovane imprenditore obamiano, scriveva editoriali in difesa dell’immigrazione e usava i suoi social per bloccare attacchi al mondo lgbtq. Dopo la sua presenza all’inaugurazione presidenziale di Donald Trump, con tanto di sbirciatina nel décolleté della fidanzata di Jeff Bezos, e dopo il suo totale abbandono del fact-checking sulle piattaforme Meta, Zuck è diventato uno “dei cattivi” per i democratici americani. E anche Bezos, il creatore di Amazon e a lungo uomo più ricco del mondo, un tempo molto critico verso il trumpismo, ha deciso a poche settimane dal voto di evitare che il suo giornale, il Washington Post, appoggiasse Kamala Harris alle elezioni. Anche lui, come Zuck, era nella Rotonda del Campidoglio il 20 gennaio piegandosi al nuovo corso statunitense sovranista-populista-imperialista e, soprattutto, imprevedibile. Nessuno dei due vuole che le loro aziende soffrano opponendosi alla Casa Bianca, nessuno dei due vuole essere schiacciato dal potere che sta accumulando il rivale Elon Musk, anche lui passato dall’obamismo al trumpismo. 


La mutazione recente dei tech bros in libertari filo Maga si è rispecchiata anche nell’estetica. Tutti e tre, Zuck, Bezos e Musk hanno iniziato a parlare di riportare in auge una certa mascolinità, su un modello falsato e astorico – molto americano – di grecità o romanità. Per un momento Zuck e Musk hanno addirittura rischiato di finire al Colosseo scontrandosi agghindati da gladiatori à la Massimo Decimo Meridio (Musk lo prendeva in giro, Zuck ci è cascato, lui che è il più naïve dei tre). Il capo di Meta si è appassionato alle arti marziali miste e ha infilato nel Cda della sua azienda il capo dell’Ultimate fighting championship, Dana White, amicone di Trump. Dalle felpette grigie da wunderkind annoiato è passato a magliettone e catenacci d’oro quasi da rapper, a t-shirt oversize con scritte in greco o in latino. I tre mostrano i muscoli, da geek rachitici o flaccidi che erano, ora vogliono far vedere i bicipiti. Il nerd diventa il bullo, appropriandosi della sua arma: la forza fisica. Non basta la superiorità finanziaria e l’arroganza data dal Qi. 


Ma di tutta questa ciurma che alcuni chiamano “tecnofeudatari” o “broligarchi” ospitati ai festini di Mar-a-Lago con dj Trump alla consolle – Village People e Pavarotti – c’è qualcuno che resta fuori, che ha ancora la pancetta molle, i suoi occhialetti da studentello del primo banco e il taglio di capelli da 4 dollari: Bill Gates. Una sorta di padre nobile insieme alla sua controparte cool, Steve Jobs che invece sull’immagine puntava molto (jeans, dolcevita, ma anche pochissime docce e niente deodorante). Una generazione prima, due rivali che hanno contribuito a portare i personal computer nelle case della classe media, erano ancora legati a qualcosa di fisico: oggetti, gadget, hardware, non solo software e follower e big data e algoritmi. Le fluttuazioni del mercato non erano così importanti come la ricerca del prodotto ideale da vendere alle famiglie. Ma se Jobs morto e ora santificato incarna il guru della comunicazione dove stile estetico, buddismo zen e perfezionismo si uniscono nella mela morsicata, Gates, a 69 anni, è l’originale tech boy. E’ quello troppo intelligente per i suoi pari e per le migliori università del mondo, che molla Harvard – come farà anche Zuckerberg – per costruire un impero sgomitando. Non un vero creativo, ma uno smanettone, con l’aria da vergine che preferisce smontare una calcolatrice per vedere com’è fatta dentro che non andare a una festa con gli amici. Il meccanismo di immagine è simile a quello per cui George W. Bush da diavolo “criminale di guerra” è stato rivalutato, diventando un simpatico ex presidente gaffeur dedito alla pittura, rispetto al Trump “stupratore” che vuole trasformare Gaza in un resort e che ha trasformato il partito di Reagan in un covo di bannoniani. In modo simile Bill Gates, che si batteva contro il governo per il monopolio di Microsoft o che imponeva Internet Explorer o che, in una puntata dei “Simpson”, faceva distruggere il software di Homer per mantenere il suo dominio tech, oggi è diventato il caro vecchio zio Bill, confortante filantropo senza mire personalistiche, senza ego da sbattere in faccia al popolo. Anzi, il popolo va aiutato. Lui ha promesso che donerà praticamente tutto quello che ha prima di morire, e ha anche fondato un’associazione, la Giving Pledge, dove i mega ricchi si impegnano a liberarsi dei miliardi e darli in beneficenza.


Se gli altri indossano orologi da decine di migliaia di dollari, Gates è orgoglioso del suo Casio Duro da 80 euro. Uomo da zero stravaganze, con i suoi maglioncini da nonno americano dei sobborghi, di recente ha portato amici e dipendenti in un mega ristorante stellato e lui si è bevuto solo una Coca Cola. Mantiene i gusti semplici di sempre, cresciuto comunque in un discreto agio. Di Musk ha detto: “L’idea che appoggi partiti di estrema destra mi sorprende, faccio attenzione a dire che Elon sia uno super-intelligente o che il suo lavoro nel settore privato sia fantastico”. Non condivide con lui nemmeno i toni apocalittici – “l’intelligenza artificiale ci ucciderà tutti”, diceva Musk – anzi, è un vero ottimista. Ed è anche scettico sulle criptovalute. Invece di giocare con i videogame tutta la notte, come fa il proprietario di SpaceX, Gates al massimo gioca a bridge con Warren Buffett e va ai tornei a New Orleans. Quando parla di IA dice che bisognerebbe applicarla alla ricerca medica e alle tecnologie per i cambiamenti climatici, non per tagliare le agenzie federali e gli aiuti umanitari. Come Obama, sul suo sito personale Gates condivide le sue letture – per Natale si è fatto fotografare vicino all’albero con in mano una pila di libri “per stare al caldo in questa stagione festiva”, tra cui “La generazione ansiosa”, di Jonathan Haidt, su come gli smartphone rovinano i giovani. Mentre gli altri leggono Ayn Rand e giocano a “Diablo IV”, lui vicino al caminetto si gusta la biografia di Leonardo da Vinci scritta da Walter Isaacson, o ancora, Jared Diamond, Harari e David Foster Wallace. Se la figura muskiana è quella del distruttore dirompente, Gates si mostra al mondo come un risolutore pacifico. Se uno vuole colonizzare Marte, l’altro dice di interessarsi alla risoluzione dei problemi terrestri, dalla disinformazione all’ineguaglianza economica, come fa nella sua serie Netflix “What’s next?”. Parla volentieri con i giovanissimi attivisti pro green e con il senatore socialista Bernie Sanders. “Con Bernie”, dice Gates, “siamo d’accordo sul fatto che i ricchi devono essere tassati di più. Gli ho chiesto se ha delle legislazioni pronte per renderlo una realtà”. “Se Bill Gates non esistesse dovremmo inventarlo”, dice Bono, leader degli U2 e mega attivista amato dal mondo progressista. 


Per anni Gates è stato l’uomo più ricco del mondo, scardinando quelle classifiche di Forbes che un tempo erano terreno per vecchie famiglie aristocratiche dell’East Coast, magnati dell’acciaio indiani, proprietari di catene alberghiere e casinò, re della finanza, produttori di mobili svedesi, principi sauditi. Nel 2025, la lista di Forbes, a parte Arnault con il suo impero del lusso e Buffett con i suoi investimenti, è tutta tech. Una volta Gates era l’eccezione, ora è stato scalzato da Nvidia e Alphabet (cioè Google). Ma anche dal ceo della sua Microsoft, Steve Ballmer, perché Bill da tempo si dedica a dare via i suoi soldi. Sull’onda della bontà generale degli anni 90, di quella vibe da “We are the World”, dove persino Bob Dylan viene trascinato a registrare con Cyndi Lauper per aiutare i bambini etiopi, Gates fonda con l’allora moglie la Bill and Melinda Gates Foundation. L’energetica filantropia lo ha inserito nella lista dei burattinai sospetti, come prima di lui George Soros. Gates, soprattutto in pandemia, è stato al centro di gigantesche teorie cospirazioniste, di quelle a ferro di cavallo, che uniscono cioè destra e sinistra anticapitaliste e paranoiche. Gates diventa una bambola vodoo, un feticcio dei complottisti di internet, anche perché nel 2015 in un Ted talk aveva detto: “Se c’è qualcosa che ucciderà più di dieci milioni di persone nelle prossime decadi, probabilmente sarà un virus, non una guerra”. Secondo il New York Times tra febbraio e aprile 2020 tra tv e social Bill Gates è stato menzionato in collegamento a false teorie sul Coronavirus 12 milioni di volte. Un video su YouTube che racconta di come Gates voglia impiantare microchip alla gente con la scusa del vaccino ha ottenuto due milioni di visualizzazioni. “A volte viene quasi da ridere leggendo di queste teorie”, ha detto Bill. Alcuni dicono che sia un rettiliano, come Tom Hanks e Lady Gaga. La Gates Foundation ha tirato fuori oltre 300 milioni di dollari per combattere il Covid-19, e in generale si concentra molto su questioni di salute, e anche per questo il suo interesse nella diffusione di medicinali viene vista dagli “imbecilli dell’internet” (cit. Umberto Eco) come un modo per qualche oscuro piano malefico. Vengono ritirati fuori anche i suoi incontri con il pedofilo suicida Jeffrey Epstein, per creargli un’ombra maligna. Lui risponde con il sorriso. Come racconta nella sua autobiografia Source code, appena uscita in Italia per Mondadori, da bambino lo chiamavano “Happy Boy”, perché sorrideva sempre. Nel libro racconta anche di quando Paul Allen, cofondatore con lui di Microsoft, lo invitò a provare l’Lsd. Solo che, dice Gates, non pensavo che l’effetto durasse anche la mattina dopo “quando avevo un appuntamento dal dentista”. 


Quelli che racconta nel libro come traumi della crescita sono tipici dilemmi adolescenziali. “Quando mi chiamavano a cena, facevo finta di non sentire. Raccogli i tuoi vestiti da terra, mi dicevano, e io niente. Sparecchia la tavola, mi dicevano, e io facevo orecchie da mercante”, racconta. E basta questo per esser spedito da uno psicologo (cosa non comune negli anni 60). Nel libro Gates si pente di quel comportamento “offensivo e saccente” di allora, e di aver creato tensioni a cena. Una madre perfezionista, che da lui voleva il meglio – sci, tennis, pianoforte, buoni voti in una scuola privata – e un padre avvocato dedito al lavoro per far star bene la famiglia. Nessuna situazione dickensiana, niente di estremo come Musk senior con le sue miniere di smeraldi in Zambia che ancora ogni tanto dice di odiare il figlio. Volendo usare i parametri freudiani, cosa che i commentatori fanno spesso anche con Musk e Trump bollandoli come bambini poco amati dal padre, Gates risulta invece piuttosto libero da pulsioni edipiche sofferenti verso il ruolo maschile. E’ soprattutto il rapporto con la madre che, apparentemente sano, sembra avere consciamente su Gates un impatto sulla sua carriera. Una madre benestante che aveva come modello i Kennedy. “Prima di tutti i guai e le tragedie che sarebbero capitati al famoso clan, i Kennedy erano il tipico esempio di famiglia americana bella, attiva, sportiva, vincente e con tutti gli ingredienti del successo”, scrive in Source code, che è anche andato a presentare da Fabio Fazio. E a proposito di successo, secondo Bill, Mary Maxwell Gates – figlia di importanti banchieri di Seattle – “voleva che suo marito avesse molto successo, un successo non tanto finanziario quanto di reputazione, di partecipazione responsabile alla vita della comunità locale e di contributo a una più ampia cerchia di organizzazioni civiche e senza fini di lucro”. Un po’ la cifra del successo che sembra aver assunto il megamiliardario negli ultimi decenni. E infatti, ricordando la madre, dice con rancore: “Con la ricchezza, era solita dire, arriva anche il dovere di donarla. Mi rincresce non sia vissuta abbastanza per vedere fino a che punto io abbia cercato di soddisfare questa sua aspettativa”.

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