Il colloquio
Trump, Harris e la tentazione isolazionista degli Stati Uniti. Intervista a Ian Bremmer
Lo scienziato politico americano riflette sulla futura politica estera statunitense: "C’è la visione che gli Usa ottengano di più spingendo nazioni più piccole e deboli a fare il lavoro sporco. Un approccio più transnazionale che non strategico"
Washington. Secondo molti analisti gli equilibri geopolitici non sono mai stati così importanti come con queste elezioni. Kamala Harris e Donald Trump hanno visioni completamente diverse sul mondo. “E’ chiaro che Putin preferirebbe una presidenza Trump, così come gli iraniani preferirebbero una presidenza Harris”, ci dice il fondatore dell’Eurasia Group, lo scienziato politico Ian Bremmer, che involontariamente suggerì a Trump lo slogan America first. “Trump è attratto dai leader ‘forti’ perché pensa che sia più facile fare degli accordi, e poi non gli piace l’idea che nelle democrazie i leader provino a usare quelli che considerano valori condivisi per migliorare le loro posizioni negoziali verso gli Stati Uniti. E questo spiega anche l’inclinazione di Trump ad avere a che fare direttamente con Kim Jong Un in Corea del nord”.
Il vice repubblicano, JD Vance, ha parlato di Trump come di un uomo che vuole la pace. Lui stesso ha detto che durante la sua presidenza non ci sono state guerre o attacchi terroristici, cosa smentita dai fact-cheker. “Trump vuole che la guerra in Ucraina finisca e aprirebbe un dialogo tra Zelensky e Putin perché accettino un cessate il fuoco tenendo i nuovi confini creati dal conflitto. Trump non coordinerebbe questo processo con gli europei, e questa è una grande preoccupazione per gli alleati Nato dell’America”. E Harris invece? “Potrebbe avere un approccio ben diverso con la Russia, più multilaterale e coordinato con gli europei. E in medio oriente più bilanciato di Trump, seppure sempre con un’inclinazione proisraeliana. Trump su Cina, medio oriente e Russia mostra più volatilità e incertezza, e questo vuol dire che potrebbe portare a un’escalation dei conflitti, ma anche alla possibilità di accordi con dei passi avanti notevoli”. Per esempio, rispetto a Israele una presidenza Trump “sarebbe ancora più in linea con il governo di Netanyahu e appoggerebbe ancora di più gli sforzi militari per limitare il potenziale nucleare dell’Iran. Aumenterebbe il rischio di un conflitto esteso nella regione”, dice Bremmer al Foglio. Dopo i discorsi anti Nato di Trump alcuni sono stati preoccupati per lo stato dell’Alleanza Atlantica.
A febbraio Trump ha incoraggiato la Russia a fare “quel che diavolo le pare” contro i paesi Nato che non pagano in tempo la loro quota. “La Nato”, ci dice Bremmer, continuerà a esistere ma con un po’ di disagio”, soprattutto perché Trump – che vede tutto come una transazione commerciale – vorrebbe che gli europei contribuissero di più economicamente all’alleanza. “E poi Trump preferisce significatamene delle relazioni bilaterali con i leader europei che non una Ue coordinata e forte. E va aggiunto che alcuni dei più filotrumpiani tra i leader europei sono anche i più euroscettici, Viktor Orbàn in particolare, e questo minaccia la forza e la stabilità dell’Unione europea”.
Nel 2021 sulla rivista Foreign Affairs Bremmer aveva teorizzato il momento tecnopolare, riguardante il ruolo più influente dei giganti tech rispetto a quello degli stati, una situazione che è emersa nelle ultime settimane elettorali. “Il ruolo di un piccolo numero di leader del tech nella geopolitica sta diventando sempre maggiore, e lo vediamo chiaramente con Elon Musk non solo nelle elezioni ma nell’informazione e nella sicurezza nazionale”.
“Cina, Cina, Cina”, diceva Trump già nel 2016 diventando un meme. Sembrava una sua ossessione. Poi però da presidente non ha fatto molto. “La politica di Trump sulla Cina è pensata attraverso una lente economica”, ci dice Bremmer, “e si concentrerebbe soprattutto su tariffe più alte”. Ma l’atteggiamento di Trump è diverso da quello dell’establishment repubblicano che lo precede. “I repubblicani in Congresso hanno una visione su Taiwan più da falchi, e questa potrebbe essere un’area di grande conflitto”. Forse Trump è riuscito a far diventare la base repubblicana più isolazionista, o forse i suoi seguono tutto quello che dice. “Più che isolazionisti sono unilateralisti”, dice Bremmer. “Certo, il popolo Maga non lo mettono in dubbio perché in un’America così divisa la politica è diventata tribale. Ma non è solo quello. A livello di policy, c’è la visione che gli Stati Uniti ottengano di più spingendo nazioni più piccole e deboli a fare il lavoro sporco; un approccio più transnazionale che non strategico, ma che ha portato ad alcune vittorie durante la presidenza Trump (l’accordo Stati Uniti-Messico-Canada, gli Accordi di Abramo, le rinegoziazioni con la Corea del Sud e con il Giappone, aumento di spese militari da parte di alleati nato, etc). E poi c’è la visione generale che si debba puntare su una politica industriale”.
Isteria migratoria