Sarà la liberazione o la morte degli ostaggi a ricucire o spaccare la società israeliana, ci dice Golan
La politica inizia a pensare a come rispondere quando un principio fondativo diventa un pericolo per il paese intero. Intervista al generale che si è messo a capo del progetto chiamato i Democratici, che ha l’obiettivo di far resuscitare la sinistra israeliana
Tel Aviv, dalla nostra inviata. Yair Golan si è ritrovato ritratto su un muro di Tel Aviv con addosso gli abiti da supereroe. Il generale ha guadagnato l’onore di essere protagonista di un murale quando a bordo della sua scassata Toyota Yaris era corso verso i kibbutz del sud attaccati da Hamas per salvare quante più persone riuscisse a caricare in macchina. Il primo che portò via dalla zona del massacro era un ragazzo: “Sua madre mi aveva mandato la posizione, l’ho trovato arrampicato su un albero”. Golan è stato parte dell’esercito israeliano per trentotto anni, è arrivato a ricoprire la carica di vicecapo di stato maggiore, “ho avuto a che fare con molte cose terribili nella mia vita, ma nulla di simile: mai avevo visto tanti corpi di giovani uccisi da assassini che non hanno nessun rispetto per la vita e mai vorranno costruire qualcosa di buono in questa parte tormentata di medio oriente”. Il 7 ottobre sta trasformando il panorama politico israeliano, contribuendo a immettere nella politica personaggi che ne erano rimasti ai margini, che avevano militato senza troppe aspirazioni, o che di aspirazioni ne avevano molte ma non erano riusciti a trovare il momento giusto. Soccorritori, vittime, famiglie di rapiti, tanti iniziano a pensare di essere pronti a prestare il loro volto alla politica. Le elezioni non sono questione di giorni, né di pochi mesi, ma si prepara un terreno diverso, in cui ognuno inizia a scrivere la sua ricetta per guarire Israele dal suo trauma. Yair Golan è il primo ad avere riscattato politicamente il suo eroismo e ha vinto in una competizione senza troppi contendenti le primarie del partito del Labor israeliano, il socialdemocratico HaAvodà fondato da Levi Eshkol.
Dopo la vittoria, Golan ha traghettato i suoi verso la fusione con Meretz, l’altro storico partito di sinistra, che alle ultime elezioni non era riuscito neppure a entrare nella Knesset. Il generale si è così messo a capo di un nuovo progetto chiamato HaDemokratim, i Democratici, che ha l’obiettivo di far resuscitare la sinistra israeliana, quella delle origini, che si è divisa in rivoli, ha trovato altre case, fino a non riconoscersi più nei suoi partiti storici. Gli israeliani parlano molto di politica, e anche se non ci sono elezioni in vista, si preparano a un voto che avrà anche il compito di vedersela con le conseguenze del 7 ottobre, con i suoi fallimenti, con le responsabilità e la richiesta dei cittadini di sapere perché non ci fosse nessuno a proteggerli dai terroristi. “Il trauma – dice Golan – è ancora difficile da capire, siamo in guerra”.
“Questo governo non ha intenzione di imparare la lezione, non si sforza di curare la società e non capisce che Israele non ha soltanto la necessità di combattere le minacce esterne, ma deve anche ritrovare la sua capacità e il suo desiderio di unità e fiducia”. Golan è sempre stato un oppositore del primo ministro Benjamin Netanyahu. Più di una volta, prima del 7 ottobre, in risposta al premier che si vantava di essere una garanzia di sicurezza, gli ha suggerito di domandarsi come mai i generali di Tsahal fossero spesso di sinistra, portandolo a ragionare sul fatto che in un paese come Israele l’inflessibilità militare non fosse una questione di destra. Nell’opposizione ci sono politici che pesano molto più di Golan, come il leader del partito di centrosinistra Yair Lapid, o l’ex capo di stato maggiore ed ex ministro della Difesa Benny Gantz, ma Golan più degli altri coltiva un contatto diretto con chi è stato vittima del 7 ottobre ed è convinto che sarà la liberazione o la morte degli ostaggi a ricucire o spaccare la società israeliana. Lo stato ebraico è sempre stato legato al principio di liberare ogni israeliano, vivo o morto, ovunque fosse e a qualsiasi condizione, anche quella di lasciar uscire di prigione terroristi brutali con piani micidiali, come è accaduto con Yahya Sinwar. Golan crede che non si possa venire meno a questo valore, su cui molti si stanno interrogando. Senza che mai venga pronunciata ad alta voce, tra gli ambienti politici e militari, circola una domanda: quando i nostri princìpi vengono usati dai nemici, non smettono forse di essere la nostra forza e diventano la nostra debolezza?
La possibilità di un cambio di paradigma riguardo agli ostaggi è il tormentato non detto alla base della volontà israeliana di costruire un nuovo medio oriente, ma sovvertirlo è un rischio per l’unità interna: “La vita di quelle persone – dice Golan – ha molto a che fare con la capacità di ricostruire la nostra solidarietà. Abbiamo bisogno di fermarci, per occuparci di noi. Questa guerra sarebbe dovuta finire mesi fa, se non affrontiamo un processo di guarigione collettivo, come paese, rischiamo tutto”. L’interrogativo rimane, se lo pongono anche i cittadini: possiamo essere vittime dei nostri ideali? E se smettiamo di seguirli, cosa diventeremo? A queste domande, volti vecchi e nuovi della politica devono prepararsi a rispondere.
Isteria migratoria