Il tour pro ucraina

Dentro la “campagna americana” di David Cameron, tra Trump e Blinken: date i soldi a Kyiv

Paola Peduzzi

Il ministro degli Esteri britannico è tornato negli Stati Uniti per cercare di sbloccare i fondi al Congresso. La tappa in Florida, cortese ma forse inefficace, e quella a Washington. No alle lezioncine, visti i precedenti, ma l'ambizione di Londra è di spintonare un po' gli americani per non perdere altro tempo. Poi certo, c'è pure che si vota anche nel Regno Unito

Attaccatevi al telefono, ha detto il ministro degli Esteri britannico, David Cameron, la settimana scorsa, rivolgendosi agli alleati europei della Nato: attaccatevi al telefono, chiamate i deputati repubblicani americani, lo speaker del Congresso Mike Johnson, i deputati democratici, tutti quanti. Gli aiuti americani all’Ucraina devono essere sbloccati subito, sono mesi che Kyiv aspetta, pagando con i suoi morti i ritardi occidentali: ora basta. 

In un editoriale sul Daily Telegraph cofirmato assieme al ministro degli Esteri francese, Stéphane Séjourné, Cameron scrive: “Il costo di non sostenere l’Ucraina oggi sarà di gran lunga più alto del costo di respingere Putin. Il mondo ci sta guardando – e ci giudicherà se falliremo”. Poi Cameron è partito per l’America: primo appuntamento in Florida, da Donald Trump. Quando Trump fu eletto nel 2016, Cameron si era già dimesso da primo ministro inglese: aveva perso il referendum sulla Brexit, il giorno successivo aveva lasciato Downing Street. Nel 2015, quando Trump preparava la sua discesa in campo e già annunciava i suoi ban all’immigrazione musulmana, Cameron fu molto critico nei suoi confronti, tanto che il futuro presidente americano disse: non penso che lavoreremo bene insieme. Non ci fu l’occasione. Nel suo memoir, “For the record”, pubblicato nel 2019, l’ex premier (è stato nominato ministro degli Esteri l’anno scorso) scrive di Trump: “E’ deprimente” che un leader che fa esternazioni “protezioniste, xenofobe e misogine” possa essere eletto presidente dell’America.

Ora i due si sono ritrovati, a cena a Mar-a-Lago, ancora più lontani di quanto già non fossero, ma l’attivismo pro ucraino di Cameron ha la meglio anche sulla distanza. I commentatori hanno voluto vederci anche altro: preparativi per il ritorno dell’ex presidente alla Casa Bianca, preparativi di leadership da parte di Cameron, che fa parte del disastrato Partito conservatore inglese, che in quest’anno elettorale potrebbe subire uno scossone notevole. Per il team del ministro inglese la priorità è una soltanto: aiutare l’Ucraina, e in fretta. L’ufficio di Trump ha comunicato che si è parlato delle elezioni che si terranno quest’anno in America e nel Regno Unito, della Brexit (chissà che conversazione armoniosa), dell’ammirazione per la regina Elisabetta, del fatto che i membri della Nato devono pagare la loro parte e di “fermare le uccisioni in Ucraina”. E’ un comunicato di Trump, quindi riflette le sue parole, che sono sempre le stesse: l’Alleanza atlantica non può essere un progetto prettamente americano e il cessate il fuoco in Ucraina, la cosiddetta “pace” che si sostanzia in una concessione di territori ucraini all’occupazione russa. Cameron gli avrà spiegato perché è necessario respingere Vladimir Putin e non capitolare davanti alla sua aggressione, e con tutta probabilità avrà utilizzato l’argomentazione che molti altri conservatori hanno cercato di portare ai trumpiani: una concessione alla Russia significa una concessione alla Cina, all’Iran e alla Corea del nord. La ragionevolezza e la coerenza non sono caratteristiche fondanti del trumpismo però, come dimostra quel che accadde l’ultima volta che Cameron andò in America: la sua opera di convincimento fu presa come ingerenza inaccettabile, tanto che la cheerleader al Congresso del trumpismo, Marjorie Taylor Greene, rispose alla “lezioncina” del ministro britannico: puoi baciarmi il culo.

Cameron ha il merito dell’insistenza. Questa volta è andato dritto dal capo del trumpismo, tirandosi addosso molte critiche – perché da Trump e non da Biden?, ha titolato maligno il Daily Mail – e qualche occhiataccia dai suoi compagni di partito che intravvedono in questa campagna americana non soltanto il ripetersi dell’antica competizione con l’ex premier (ed ex alleato) Boris Johnson, il più limpido e audace sostenitore dell’Ucraina, ma anche il tentativo di adombrare l’acciaccato premier Rishi Sunak. Di certo qualche istinto elettorale ce l’avrà anche Cameron, così come ha l’urgenza di ripulire il suo brand dalla disfatta brexitara, ma Kyiv non si merita tutte queste analisi nazional-ombelicali quando si tratta della sua sopravvivenza.

Il ministro britannico si è già attaccato al telefono con i repubblicani  e in particolare con Mike Johnson, speaker del Congresso, che si ritrova ancora una volta a giocarsi la propria sopravvivenza sull’Ucraina. Così come ha fatto di tutto dall’autunno a oggi per per condizionare il voto sugli aiuti militari a Kyiv alle priorità dei repubblicani e dei trumpiani, cioè l’immigrazione, così ora ha annunciato che il voto si farà e che si aspetta che sia favorevole all’approvazione dei fondi necessari per la produzione di armi (sul territorio americano) da inviare all’Ucraina. C’è chi dice che sarà il suo ultimo atto da speaker del Congresso e chi invece ci vede la possibilità di ricreare una specie di equilibrio dentro al gruppo in modo che la minoranza trumpiana (tale è) non abbia così tanta voce in capitolo.

A Cameron, come agli europei, del destino di Mike Johnson importa il giusto, l’obiettivo è sbloccare i fondi americani. Il ministro britannico ha incontrato a Washington il suo omologo, il segretario di stato Antony Blinken, con il quale condivide lo slancio pro ucraino e le pressioni per il sostegno dato a Israele. Dietro le quinte, Cameron avrà chiesto anche quel che tutti si domandano: davvero non c’è un modo per aiutare Kyiv aggirando l’impasse parlamentare? E’ quel che chiedono soprattutto gli ucraini, che da due anni e rotti hanno utilizzato in modo straordinario le risorse militari messe a disposizione dagli alleati occidentali e hanno accettato tutti i vincoli imposti, a partire da quello che si è rivelato il più tragico: l’assenza di una copertura aerea. I britannici sono stati fin da subito i più determinati, ma sanno che senza l’apporto americano respingere Putin non è possibile. Cameron ha l’ambizione (molto inglese) di poter persuadere gli americani laddove mostrano riluttanza, come è accaduto già quando si decise l’invio dei carri armati e degli F-16. I repubblicani, con i quali c’è la stessa appartenenza partitica, sembrano vivere su un altro pianeta, deformati come sono dal trumpismo. Ma anche l’Amministrazione Biden va un po’ spintonata, finché si è in tempo.
 

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi