Fatemeh Bahrami/Anadolu via Getty Images 

Khamenei minaccia in ebraico e Tel Aviv si sveglia senza Gps. Israele teme la rappresaglia iraniana

Cecilia Sala

Dopo l'attacco che ha raso al suolo il consolato iraniano a Damasco e ha ucciso il pasdaran più importante del Levante, la Guida suprema ha pubblicato una minaccia scritta nella lingua del nemico e Israele si è messo in stato di allerta

Venti minuti dopo la mezzanotte di ieri la Guida suprema dell’Iran, Ali Khamenei, ha pubblicato su X un post insolito perché scritto in lingua ebraica. Il post diceva: “Con l’aiuto di Allah faremo pentire i sionisti del loro crimine contro il consolato iraniano a Damasco”. Khamenei si riferiva ai  missili  israeliani che lunedì hanno raso al suolo il consolato di Teheran nella capitale siriana e hanno ucciso il più importante generale pasdaran nel Levante, Mohammad Reza Zahedi, e sei suoi sottoposti. Ieri i cittadini israeliani si sono svegliati in allerta e a Tel Aviv, quando hanno preso in mano gli smartphone, hanno scoperto che non funzionava più il sistema Gps sui telefoni cellulari. Se aprivi un’app di navigazione per farti guidare da un punto a un altro della città, la mappa sullo schermo ti mostrava le strade di Beirut al posto di quelle di Tel Aviv perché la geolocalizzazione era saltata.

Poche ore prima ai soldati di Tsahal era stato ordinato di rimanere nelle loro basi. Poi la Difesa ha sospeso il congedo per tutti i combattenti e il primo ministro ha convocato il gabinetto di guerra. L’ipotesi, su cui i servizi segreti dello stato ebraico si erano consultati con l’intelligence americana, era quella di una ritorsione iraniana imminente. Alcuni blogger militari amici della Repubblica islamica avevano rivendicato troppo in fretta il successo della guerra elettronica dei pasdaran che aveva messo temporaneamente fuori uso il Gps in Israele. In realtà alle 9 di mattina la radio militare israeliana ha spiegato che si trattava di una misura di sicurezza (un’operazione elettronica per difendersi e non un attacco andato a segno) per disturbare le bombe a guida di precisione che i nemici avrebbero potuto lanciare, per interferire con i sistemi di tracciamento dei missili iraniani oppure di Hezbollah e con gli sciami di droni suicidi. 

Il post minaccioso in ebraico di Khamenei era un tentativo di rispondere alla protesta (non si sa se spontanea o organizzata da fazioni del potere iraniano) che si era radunata in piazza Palestina a Teheran per chiedere un attacco subito contro Israele “per vendicare Zahedi e i suoi uomini” – come hanno urlato i manifestanti. Dal 7 ottobre la posizione della Guida rispetto a un coinvolgimento del suo paese nella guerra viene riassunta dai media iraniani con la formula “pazienza strategica”. Secondo questa teoria, non lasciarsi trascinare in uno scontro diretto con Israele e non rispondere alle provocazioni sarebbe un segno di forza, non di debolezza, di Teheran. Ma dopo l’attacco a Damasco questa posizione è contestata dai manifestanti, dai blogger militari vicini ai pasdaran (che spesso dicono ciò che i Guardiani della rivoluzione non possono dire in pubblico) e dagli esperti della galassia conservatrice, quindi teoricamente vicini alla Guida e al presidente. Il primo aprile, la sera dell’attacco al consolato, Mahdi Mohammadi, un analista pro regime famoso e consulente del presidente conservatore del Parlamento, aveva detto: “Una delle affermazioni più sbagliate che si ascoltano oggi è quella secondo cui sarebbe Israele a voler trascinare l’Iran in guerra (di conseguenza rispondere, per Teheran, significherebbe cadere in una trappola del nemico). Pronunciare questa frase vuol dire astenersi dal combattere una guerra reale, che è già qui, per evitarne una immaginaria”. Le parole di Mohammadi sono una contestazione della “pazienza strategica” e insistono su un punto: tra le nostre file ci sono già molte vittime, lunedì è stato colpito un consolato che tecnicamente è territorio iraniano, dunque non si può evitare una guerra se quella guerra è già cominciata. Critiche molto esplicite alla linea ufficiale sono arrivate anche da Hassan Danaeifar, ex comandante dei pasdaran ed ex ambasciatore iraniano in Iraq, e da Yasser Jabraily, un politico conservatore vicino al presidente e solitamente allineato alle sue posizioni. Per il momento le autorità replicano a queste obiezioni con le parole e con i post sui social network ma senza ordinare rappresaglie militari dirette, che significherebbero un’escalation e un allargamento del conflitto rispetto agli attacchi contro Israele delle milizie alleate di Teheran sparse per il medio oriente. 

Gli ayatollah vorrebbero evitare una guerra anche perché fanno già fatica a mantenere la sicurezza in casa: a gennaio l’Isis-K ha compiuto il peggior attentato della storia della Repubblica islamica a Kerman, uccidendo quasi 100 persone. E ieri c’è stato un attacco coordinato nel sud-est del paese, in Sistan Baluchistan, dove un altro gruppo salafita che si chiama Jaish al-Adl ha colpito simultaneamente basi dei pasdaran, installazioni della Marina e caserme della Polizia. Dopo 16 ore Teheran non era ancora riuscita a fermare tutti gli attacchi.

 

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