Soldati americani si preparano a caricare un bombardiere B-1 (Cherie A. Thurlby/Aeronautica americana/Getty Images) 

È iniziato l'attacco americano contro gli alleati iraniani in Siria e Iraq

Luca Gambardella

Primi raid nella notte al confine fra i due paesi contro i depositi di armi e le basi delle milizie. Biden: "È l'inizio della nostra risposta"

È iniziata l’operazione punitiva contro le milizie filoiraniane in Siria e Iraq dopo l’attacco di domenica scorsa a una base americana in Giordania. Ieri sera, intorno alle 22 ora italiana, i bombardieri americani di lungo raggio B-1, insieme ai caccia F15 dell’aviazione giordana, hanno colpito in totale 85 obiettivi in quattro località della Siria orientale e in tre dell’Iraq occidentale. “La nostra risposta inizia oggi. Gli attacchi continueranno al momento e nei luoghi che abbiano scelto”, ha annunciato il presidente americano Joe Biden. Il Comando centrale degli Stati Uniti ha diffuso un comunicato al termine delle operazioni, che sono durate all’incirca due ore, in cui ha spiegato di avere impiegato 125 missili di precisione per distruggere basi di intelligence, depositi di munizioni e di droni. In Siria l’attacco ha interessato il governatorato orientale di Deir Ezzour, fra al Bukamal e al Mayadeen, mentre in Iraq l’attacco ha preso di mira la cittadina di confine di al Qaim e Anbar. Ci sarebbero diversi morti fra i combattenti filoiraniani, ma il numero è indefinito.

 
È stato un attacco senza alcun effetto sorpresa, perché nel pomeriggio di ieri fonti dell’Amministrazione avevano anticipato al Wall Street Journal che l’operazione era imminente. Sin da quando i bombardieri sono decollati dalle basi americane su X alcuni profili che monitorano il traffico aereo militare hanno seguito passo passo il loro viaggio fino al momento dell’attacco in Siria e Iraq. Da giorni le milizie filoiraniane sapevano che la ritorsione sarebbe arrivata perché gli Stati Uniti non hanno mai mancato di comunicare le fasi preparatorie dell’attacco con dichiarazioni rivolte alla stampa da diversi funzionari anonimi dell’Amministrazione. Una scelta deliberata, quella di Washington, per evitare che l’attacco avesse conseguenze troppo dure per l’Iran spingendolo a una guerra più ampio e violenta su scala regionale. In questo modo, invece, l’Iran ha avuto tutto il tempo di prendere le contromisure necessarie, a mettere al riparo gli obiettivi davvero sensibili - per esempio, nei pressi della base iraniana di Imam Ali, al confine con l’Iraq, molti dei depositi di armi sono scavati in bunker sotterranei - e a fare rientrare in luoghi sicuri i comandanti dislocati nelle varie basi militari fra Siria e Iraq. 

 

Il presidente Biden alla cerimonia per il rientro in patria delle salme dei soldati uccisi in Giordania (GettyImages) 
   

Il governo iracheno ha protestato contro gli americani per la violazione della sua sovranità nazionale, definita “un insulto”. Un video diffuso dai canali Telegram di Kataib Hezbollah, la milizia responsabile dell’attacco di domenica scorsa che ha ucciso tre militari americani nella base giordana, mostra l’esplosione di un deposito di armi ad al Qaim, al confine con la Siria. Dall’altra parte della frontiera, il regime siriano ha diffuso un comunicato in cui ha condannato l’intervento americano e ha detto che nei bombardamenti sono morti dei militari che erano impegnati nella guerra allo Stato islamico: “Ciò dimostra la connivenza degli americani con il Califfato”, dice un comunicato del regime di Damasco, che non è nuovo a questo genere di propaganda prefabbricata. Un dato notevole è la partecipazione, a sorpresa, del Regno di Giordania alle operazioni militari. Re Abdallah II ha voluto ribadire così la sua piena collaborazione con gli Stati Uniti dopo l’attacco delle milizie filoiraniane sul suo territorio. È un dato non scontato, visto che dopo l’attacco del 7 ottobre a Gaza la Giordania aveva condannato la reazione israeliana sostenuta dagli americani e si era schierata in difesa dei palestinesi. 


Gli attacchi di ieri sera, come prevedibile, non hanno portato a perdite incolmabili per l’Iran, sebbene abbiano ridotto sensibilmente la disponibilità di armi e munizioni delle milizie. “Aspettiamo che domani sorga il sole e faremo una valutazione dei risultati dell’attacco. Siamo abbastanza fiduciosi”, ha commentato ieri sera in conferenza stampa il generale D.A. Sims. Nei piani originari americani, l’operazione dovrebbe durare diversi giorni e non dovrebbe colpire il territorio iraniano. Ma le parole di Biden di ieri sera a proposito dei tempi e delle modalità dell’attacco che saranno “scelti in base alle nostre decisioni” lascia intendere che i raid non saranno continuativi e dipenderanno da come si comporteranno le milizie filoiraniane. Se le minacce contro le basi americane dovessero interrompersi, gli attacchi potrebbero essere congelati. 


È la stessa strategia adottata contro gli houthi dello Yemen dalla coalizione anglo-americana: lanciare attacchi preventivi solamente quando la minaccia sembra essere imminente. Anche ieri notte, due ore dopo i raid al confine tra Siria e Iraq, altri missili sono stati lanciati contri i ribelli filoiraniani dello Yemen.


La possibilità che stavolta la deterrenza americana funzioni, dopo 185 attacchi filoiraniani alle basi statunitensi fra Siria e Iraq dallo scorso ottobre e la cinquantina di aggressioni lanciate dagli houthi nel Mar Rosso, è tutta da verificare. Poche ore dopo l’attacco, il fronte della Resistenza islamica in Iraq, l’ombrello che racchiude le milizie filoiraniane, ha annunciato di avere attaccato con un drone la base americana di Harir, nel Kurdistan iracheno. Ieri, Harakat Hezbollah al Nujaba, un’altra milizia filoiraniana, ha annunciato che non si unirà alla tregua decisa tre giorni fa da Kataib Hezbollah e che continuerà a prendere di mira le basi americane in Siria e Iraq.

 

  • Luca Gambardella
  • Sono nato a Latina nel 1985. Sangue siciliano. Per dimenticare Littoria sono fuggito a Venezia per giocare a fare il marinaio alla scuola militare "Morosini". Laurea in Scienze internazionali e diplomatiche a Gorizia. Ho vissuto a Damasco per studiare arabo. Nel 2012 sono andato in Egitto e ho iniziato a scrivere di Medio Oriente e immigrazione come freelance. Dal 2014 lavoro al Foglio.