È arrivato il momento della caduta del dittatore in Birmania?

Massimo Morello

A tre anni dal colpo di stato della giunta militare, la guerra civile ha provocato oltre trentamila morti, ventimila prigionieri politici, un milione di profughi. Da qualche giorno si rincorrono le voci: Min Aung Hlaing potrebbe abbandonare la leadership dell’esercito

“Entro fine gennaio succederà qualcosa”. Inizia così un messaggio che negli ultimi giorni è inoltrato identico da diverse fonti. “Non è ancora chiarissimo cosa succederà, ma qualcosa bolle in pentola. Dobbiamo verosimilmente aspettarci un cambiamento importante, probabilmente non drastico, ma importante. E’ verosimile che Min Aung Hlaing possa abbandonare la leadership dell’esercito, probabilmente rimpiazzato da Soe Win”. Il generale a capo della giunta che governa la Birmania dovrebbe essere spodestato dal suo vice. Un cambiamento che dovrebbe verificarsi tra fine gennaio e metà febbraio, in occasione del terzo “anniversario del golpe”, perpetrato il primo febbraio 2021.

In  questi tre anni la guerra civile ha provocato oltre trentamila morti, ventimila i prigionieri politici. I profughi sono quasi un milione. Circa 19 milioni di persone hanno bisogno di aiuti umanitari. Più di tredici milioni di persone, circa un quarto della popolazione, soffrono di malnutrizione e i più anziani stanno morendo di fame. Le zone più povere di Yangon sono sommerse dai rifiuti provenienti da tutto il mondo perché il governo le ha affittate come discariche.

Ma il messaggio di questi giorni che annuncia la caduta del dittatore non sembra diffuso dal Nug , il National Unity Government, il governo ombra. L’autore, secondo una fonte del Foglio che frequenta lo stesso ambiente, dovrebbe essere “qualcuno” della comunità di ricchi birmani, “cronies”, come li definiscono, faccendieri  legati ai militari e coinvolti nei loro affari, che si sono trasferiti a Bangkok perché in questo momento la vita a Yangon è scomoda anche per loro.

 

 

Quegli stessi personaggi, come molti militari, sono ormai i maggiori oppositori del generale Min Aung Hlaing. Uno dei motivi di tanto risentimento è provocato dalle interferenze dei familiari del generale nei traffici e gli affari che in precedenza erano amministrati da una sorta di cupola che comprendeva tutti. Ma il fatto che ha scatenato questa nuova opposizione è stata la  “Operation 1027”, scattata il 27 ottobre. Quel giorno la Brotherhood Alliance, che raccoglie le più potenti Ethnic Armed Organisation (Eao), le milizie etniche degli Shan, dei Wa, dei Kachin, degli Arakanesi, ha lanciato un’offensiva lungo tutta la zona di confine con la Cina conquistando centinaia di postazioni militari, città e villaggi. In seguito, i combattimenti si sono estesi in altri stati della Birmania, dai confini con la Cina a quelli con l’India, sino a coprire tutto il nord del paese.

Il successo dell’operazione era garantito, come afferma la fonte del Foglio,  dal “tacito assenso” della Cina. Contrariamente a quanto sostenuto da alcuni analisti, il governo di Pechino non ha mai dimostrato particolare apprezzamento per la giunta militare. Si è limitata a sostenerla per mantenere il controllo sulla linea di connessione e sul gasdotto tra Yunnan e Golfo del Bengala. A tradire i militari è stata l’avidità. Le triadi, con la complicità della Border Guard Force allineata ai militari, hanno trasformato la regione di confine in un immenso hub criminale con un giro d’affari di miliardi di dollari generati da produzione di droga, traffico di esseri umani e, soprattutto, dai famigerati “scam centres”, i call centre della truffa. Sono veri e propri insediamenti dove migliaia di persone sono costrette in schiavitù per gestire gioco d’azzardo on line e trasformare la “rete” in una cybertrappola per truffare milioni di persone in tutto il mondo. Molte di quelle persone sono cinesi. Senza contare i cittadini della Repubblica Popolare schiavi dei criminali collusi con la giunta.  Alla fine, la Cina ha deciso di far risolvere il suo problema dalle etnie birmane. Allo stesso tempo ha lanciato un avvertimento alla giunta, dimostrando che potrebbe sostenere un nuovo governo formato dal Nug e dai movimenti etnici.

L’operazione 1027 si è prolungata ben oltre la data da cui prende nome ed è proseguita in un alternarsi di tregue e cessate il fuoco di volta in volta infranti da una delle parti. Alla fine, la giunta controlla effettivamente meno del 20 per cento del territorio, Tatmadaw è decimata dalle diserzioni e può contare solo su 70.000 uomini in condizioni di combattere ma dal morale a pezzi. I volontari della People’s Defence Forces, il braccio armato del Nug, invece, sono sempre più organizzati e preparati tanto da apparire ormai come un vero e proprio esercito di liberazione popolare.

 

 

«Qualcosa deve accadere» ripete anche Larry Jagan, decano dei giornalisti esteri a Bangkok, uno dei maggiori esperti di questioni birmane. «Potrebbe essere un governo provvisorio tra militari e Nug per formare una costituente e andare al voto nel 2025». In questo caso non sarebbe da escludere la liberazione di Aung San Suu Kyi. Oppure, dato che la Signora non è disposta ad alcun compromesso, il suo trasferimento ai domiciliari. «Chissà, magari nel ’25 potrebbe finalmente diventare Presidente».

Mentre ci si avvicina all’anniversario del golpe lo scenario birmano si popola di cigni neri. «La Birmania finirà come il Vietnam: spaccata in due, un nord e un sud». Era la previsione di un italiano che faceva affari in Birmania da vent’anni. Allora, qualche mese dopo il golpe, sembrava la strampalata ipotesi di un espatriato.

«La soluzione più probabile è che il paese venga diviso in due, un nord e un sud» ha detto al Foglio un personaggio che ha molti contatti con i movimenti di resistenza in Birmania. L’ipotesi strampalata è divenuta una proiezione geopolitica. Ancora una volta, la geografia è destino. Basta osservare la “Myanmar Guide Map”: la linea di demarcazione può essere tracciata seguendo il percorso del gasdotto che va dall’isola di Kyaukpyu, al largo delle coste dello stato birmano del Rakhine, nel Golfo del Bengala, sino alla città di Muse, al confine con la provincia cinese dello Yunnan. Il gasdotto, parallelo alla più importante strada interna, da Mandalay allo Yunnan, disegna un corridoio economico e strategico che la Cina vuole controllare a ogni costo e con qualunque alleato. 

 

 

La Birmania del Nord, dunque, comprenderà i territori controllati dalle milizie etniche. Gran parte di quei territori, circa 47.000 ettari, sono dedicati alla coltivazione del papavero da oppio, con un raccolto che nel 2023  è stato di oltre 1000 tonnellate. Secondo il rapporto dell’UN Office on Drugs and Crime presentato il 12 dicembre, la Birmania è così divenuta il primo produttore al mondo, superando l’Afghanistan.

Il Sud, a eccezione dello stato Karen, al confine con la Thailandia, è popolato dalla maggioranza Bamar. Qui, secondo i rappresentanti del National Unity Government, dovrebbe insediarsi un governo democraticamente eletto che controlli un esercito popolare. Nord e Sud, secondo le più ottimistiche previsioni e quanto affermato dal Nug, dovrebbero a loro volta formare una “democratica unione federale”.

«Alla fine, qualunque cosa accada, i morti saranno morti invano» è la previsione dell’eccentrico e sconsolato espatriato italiano.

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