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A Taiwan ogni voto è una festa

I volti di una campagna elettorale e i prossimi leader che dovrete imparare a conoscere

Giulia Pompili

Più che la cupezza di uno scontro geopolitico tra America e Cina, le elezioni di oggi sono il segnale luminoso di una democrazia che vuole resistere

Da un lato la guerra di nervi, lo scontro più alto, quello strategico tra America e Repubblica popolare cinese. La Casa Bianca che annuncia una delegazione americana di alto livello a Taipei subito dopo il voto di oggi, e il segretario Antony Blinken che incontra Liu Jianchao, capo delle relazioni diplomatiche del Partito comunista cinese. Dall’altro i canti, gli slogan, i colori delle piazze: solo in Asia orientale la fine di una campagna elettorale diventa una festa colorata più simile alla fine di un campionato di calcio che a uno scontro politico. E in particolare a Taipei, ogni quattro anni, va in scena lo stesso show: decine di migliaia di persone in piazza, ordinatissime e organizzatissime con parrucche e cappellini dei colori dei diversi partiti, seguono i comizi finali con la voglia di prendere parte a qualcosa, che nella capitale taiwanese ha un significato più profondo rispetto a qualunque altra parte del mondo. La campagna elettorale, il voto, la scelta in mano ai cittadini: l’intero processo democratico è l’essenza stessa della diversità dell’isola di poco più di 23 milioni di abitanti con il gigante vicino, la Repubblica popolare cinese, la seconda economia del mondo e il secondo luogo più popoloso al mondo, il paese che vorrebbe cancellare l’autonomia di Taiwan. Non è stato un avvicinamento facile, quello dei taiwanesi alla democrazia: c’è voluto tempo, hanno dovuto attraversare il periodo del cosiddetto Terrore bianco, l’autoritarismo dei nazionalisti, che è durato quarant’anni. I libri di storia solo adesso cominciano a raccontare come questa piccola isola, considerata da Pechino come proprio territorio e quindi costantemente minacciata da una “riunificazione”, anche con la forza, sul finire degli anni Ottanta abbia iniziato a pensare a sé stessa, alla costruzione di una sua identità democratica, anche se l’America e l’occidente l’avevano già mollata una decina d’anni prima preferendogli il grande mercato in espansione della Cina. L’isola che la Repubblica popolare cinese rivendica come proprio territorio anche se il Partito comunista cinese non l’ha mai governata oggi, alle urne, mostra a Pechino il suo profilo migliore, a prescindere dai risultati di questa sera. 

 


Dopo otto anni di democratici e progressisti alla presidenza, la campagna elettorale del partito nazionalista del Kuomintang e del suo candidato, Hou Yu-ih, l’ex poliziotto che si è trasformato nel popolarissimo sindaco di Nuova Taipei, ha funzionato. Ma rispetto alle promesse elettorali di otto anni fa sono stati proprio i conservatori taiwanesi a modificare le loro posizioni, ad avvicinarle a quelle della sinistra, come se il cambiamento dell’isola abbia investito anche quelli che tradizionalmente sono considerati più “vicini” a Pechino. Ieri sera, al comizio finale di Hou Yu-ih, il Kuomintang ha deciso di non invitare l’ex presidente e uno dei politici più importanti di Taiwan, Ma Ying-jeou, che a settembre scorso per la prima volta dalla fine della Guerra civile cinese era stato in visita a Pechino. Hou non ha voluto sul palco con lui Ma, che qualche giorno fa, in un’intervista a Deutsche Welle, aveva dichiarato che “per quanto riguarda le relazioni tra i due lati dello Stretto, bisogna avere fiducia nel presidente cinese Xi Jinping”. L’ex poliziotto diventato sindaco vuole un profilo dialogante con la Cina e accusa la sinistra di provocare la guerra, ma sa che nessuno ormai, tra i suoi elettori, vorrebbe la formale annessione di Taiwan alla Repubblica popolare cinese. E con nessuna formula più sfumata, nemmeno con quella proposta da Pechino di “un paese, due sistemi”: l’esempio di Hong Kong, la cui autonomia è stata cancellata con una legge approvata nel giro di poche settimane nel 2020, ha fatto scuola. 
Pechino ha sostenuto a lungo il vecchio Kuomintang, e soprattutto i suoi elettori più anziani – negli ultimi mesi corteggiati anche con viaggi premio e sconti nella Repubblica popolare, secondo le inchieste sulle interferenze straniere che intanto vanno avanti a Taipei. Di sicuro, la leadership cinese non si fida di Lai Ching-te, il candidato del Partito democratico progressista, perché il simbolo di una continuità con il governo di Taipei che vuole aprirsi alle democrazie d’Asia e all’occidente riducendo sempre di più la dipendenza economica dalla Cina.  Lai, che ha scelto il nome inglese William, è il favorito a entrare nel palazzo della presidenza taiwanese, questa volta però non da vice, come ha fatto negli ultimi quattro anni. Ma più di Lai, che una volta era un vero “indipendentista” e ora si limita a difendere “la sovranità” di Taiwan, i funzionari di Pechino devono avere un’avversione particolare per lei, Hsiao Bi-khim, la candidata alla vicepresidenza nel ticket del Partito democratico progressista. Cinquantadue anni, una carriera diplomatica poi trasformata in politica, nata in Giappone da padre taiwanese e madre americana, Hsiao è un volto popolarissimo non solo a Taiwan. Non è un caso se già quattro anni fa si parlava di lei come possibile candidata alla presidenza dopo Tsai Ing-wen, la progressista che negli ultimi otto anni ha cambiato il volto di Taiwan. Forse però il suo profilo sarebbe stato troppo sovrapponibile, per il momento, a quello di Tsai, e quindi poco convincente per quella parte degli elettori dem taiwanesi delusi dai risultati (soprattutto economici) degli ultimi otto anni.  Hsiao però è lì, ed è pronta.

 


Il Partito democratico progressista ha annunciato solo qualche mese fa che Hsiao sarebbe stata l’angelo custode della campagna elettorale presidenziale di Lai, quella che probabilmente gli ha portato un numero considerevole di voti. Non poteva farlo prima, perché nel frattempo, nel luglio del 2020 in piena pandemia, lei aveva lasciato il Consiglio nazionale di sicurezza di Taipei ed era partita per Washington, come prima donna rappresentante di Taiwan in America. Aveva insomma un ruolo cruciale, che non poteva essere annacquato con una campagna elettorale troppo lunga.  L’ambasciata di Taiwan in America ovviamente non si chiama ambasciata, ma “Taipei Economic and Cultural Representative Office in the United States”, una rappresentanza economica: perché Taiwan ha uno status giuridico unico nel mondo. La maggior parte dei paesi – tranne una dozzina, compreso lo stato Vaticano che infatti ospita una vera “ambasciata di Taiwan” – riconoscono formalmente una sola Cina, cioè quella che ha come capitale Pechino. Ma questo non significa che non abbiano rapporti diplomatici, commerciali e istituzionali con il governo non formalmente riconosciuto, cioè quello di Taiwan. E per non indispettire Pechino è tutto un linguaggio sinicamente corretto, come “rappresentante” al posto di “ambasciatore”. 

 


Hsiao Bi-khim dunque è stata una rappresentante in America, ma il New York Times una volta l’ha definita la “non-ambasciatrice più influente di Washington”: “E’ tra gli ambasciatori stranieri più influenti di Washington, ma tecnicamente non è un’ambasciatrice”, scriveva il reporter Michael Crowley esattamente un anno fa. “Lavora in una grande tenuta, ma non può viverci. Il semplice fatto di sventolare la sua bandiera potrebbe causare un incidente diplomatico”. Eppure “parla quasi quotidianamente con gli alti funzionari dell’Amministrazione Biden ed è in contatto con i leader di entrambi i partiti al Congresso”.  Il ruolo di rappresentante dell’autonomo governo di Taipei è sempre stato cruciale per le relazioni con l’America, ma è stata Hsiao a trasformarlo: prima donna a ricoprire quel ruolo, si è costruita negli anni la fiducia dei rappresentanti delle istituzioni americani, tanto che prima di lei un non-ambasciatore taiwanese non sarebbe mai stato ammesso negli uffici della Casa Bianca o in quelli del dipartimento di stato, sempre per non indispettire la Cina, ma con lei lentamente molti dei divieti formali sono caduti. All’insediamento di Joe Biden da presidente, il 20 gennaio del 2021, tutti hanno notato per la prima volta l’assenza del suo predecessore, Donald Trump, ma in pochi hanno notato un’altra presenza con un messaggio politico molto chiaro: per la prima volta dal 1979, l’anno in cui gli Stati Uniti hanno deciso di riconoscere la Repubblica popolare cinese di Mao disconoscendo, di fatto, Taiwan, un rappresentante delle istituzioni ha partecipato tra gli invitati all’inaugurazione di un presidente degli Stati Uniti d’America.

 

 

Fu una scelta delle primissime ore dell’Amministrazione Biden in perfetta continuità con l’Amministrazione Trump: fu infatti l’ex segretario di stato Mike Pompeo a revocare ufficialmente alcune delle restrizioni nei contatti tra funzionari americani e taiwanesi, una decisione che avvenne qualche anno dopo la prima elezione di Tsai Ing-wen alla presidenza di Taiwan, nel 2016, e un altro segnale gigantesco che diede l’allora presidente-eletto Trump telefonandole per farle gli auguri – era la prima volta dal 1979 che succedeva. L’altra svolta nei rapporti tra America-Cina e Taiwan ci fu il 2 agosto del 2022, con “l’inaccettabile”, secondo Pechino, visita della speaker della Camera americana Nancy Pelosi a Taipei: per molto tempo, la disinformazione cinese accusò Hsiao di aver organizzato e manovrato quella visita. E infatti oggi la diplomatica ha ben due pacchetti di sanzioni economiche da parte di Pechino, imposte dopo la visita di Pelosi e dopo l’incontro tra la presidente Tsai e il successore di Pelosi, Kevin McCarthy , nell’aprile dello scorso anno, sanzioni che le impediscono di entrare legalmente nel territorio della Repubblica popolare e a lei e ai membri della sua famiglia di fare affari che riguardano la Cina.      
L’America di oggi guarda ai risultati delle elezioni a Taiwan con attenzione, la stessa della Repubblica popolare cinese. Perché al di là della situazione geopolitica internazionale, della guerra in Ucraina e quella in medio oriente, insomma della crisi globale, per Washington la competizione strategica con la Cina resta la priorità, e Taiwan è la frontiera su cui si gioca la protezione del mondo democratico e la prepotenza del mondo dei paesi autoritari.
In questo senso, Hsiao Bi-khim rappresenta alla perfezione il mondo progressista e cosmopolita dell’Asia orientale contemporanea. Già nel 2006, quando era parlamentare, è stata tra le promotrici che hanno portato nel 2019 all’approvazione della legge che ha introdotto a Taiwan il matrimonio egualitario. E’ durissima quando si parla di diritti, di diseguaglianze, di questioni di genere e ambientali: sui tabloid taiwanesi una delle cose che si legge più spesso, di lei, è il fatto che abbia fatto l’intera campagna elettorale con i vestiti di seconda mano che le ha regalato la presidente Tsai. La prima volta che è entrata in Parlamento l’ha fatto con altre due neoparlamentari progressiste, due sue amiche, Cheng Li-chun e Chiu Yi-ying, e i giornali e i social le chiamavano le “S.H.E. della politica”, dal nome del trio femminile di musica pop più famoso di Taiwan. Durante questa campagna elettorale ha indossato spesso le orecchie da gatto: come Tsai, anche Hsiao è una grande amante dei gatti, e mentre era a Washington da ambasciatrice su Twitter la sua bio recitava “cat warrior”, un altro soprannome in risposta all’aggressività della diplomazia cinese che in quel periodo veniva definita dei “wolf warrior”, i lupi guerrieri. Come i gatti, spiegava lei, la diplomazia taiwanese avrebbe dovuto essere agile, flessibile, adattabile.

 


Anche per questo atteggiamento Hsiao piace ai giovani, e soprattutto a quel milione di ragazzi che negli ultimi quattro anni hanno compiuto vent’anni, e che quindi oggi possono votare: i nati dopo il Duemila magari non hanno mai potuto sventolare la propria bandiera alle Olimpiadi, ma sanno cosa sia rivendicare la propria identità, proteggere il loro accesso alle informazioni verificate, il loro diritto di espressione, e sanno quanto sia importante la politica nelle loro vite. Come moltissimi dei loro coetanei occidentali, parlano perfettamente inglese e magari hanno già avuto esperienze di vita all’estero. Proprio come Hsiao Bi-khim, il cui lancio sulla scena internazionale e nei corridoi dei palazzi del potere di Washington è stato aiutato anche dal suo inglese da madrelingua: Hsiao ha preso il diploma al liceo di Montclair, nel New Jersey, dopo che la sua famiglia si era trasferita lì, e su suggerimento degli insegnanti ha proseguito gli studi in America: prima con una laurea in studi sull’Asia orientale all’Oberlin College e poi con un master in Scienze politiche alla Columbia. Taiwanese, giapponese di nascita, americana di formazione: l’incubo di Xi Jinping. 

 


Oggi a Taiwan si vota anche per rinnovare lo Yuan legislativo, il parlamento monocamerale di Taipei, e nella massima rappresentazione di un processo democratico maturo c’è la possibilità che nessuno dei partiti candidati, né il Partito democratico progressista, né il Kuomintang né il Taiwan People’s Party raggiungano la maggioranza. Per il partito attualmente alla presidenza, che auspica la vittoria alla presidenza con il ticket Lai-Hsiao, perdere il Parlamento sarebbe un problema, ma certi tecnicismi politici raccontano anche un’altra cosa: localmente il Partito democratico progressista non ha mai avuto grandi numeri. Nell’amministrazione locale le politiche securitarie dei conservatori del Kuomintang accendono di più l’interesse degli elettori, ma quando si tratta di decisioni più ad ampio respiro, sulla politica estera per esempio, gli otto anni di presidenza Tsai hanno dato la certezza ai ventitré milioni di cittadini che Taiwan può esistere, anche senza il “riconoscimento formale” degli altri governi, con il suo status unico, e senza subire il bullismo cinese. Come in tutte le democrazie, il voto poi si basa sulle ricette economiche, sui posti di lavoro e il salario minimo, ma sopra a tutto questo le elezioni di oggi – e quelle di quest’anno sono le più seguite di sempre dai media internazionali – sono la dimostrazione del fatto che ignorare Taiwan, la sua specificità, la sua democrazia, sarà impossibile nei prossimi anni. 

  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.