(foto EPA)

dopo l'intervista di crosetto

La mediazione dell'Onu nello spazio ex sovietico non ha mai funzionato con la Russia

Nona Mikhelidze

I conflitti irrisolti dopo il 1991 restano tali, mentre l’elenco dei crimini commessi da Putin, in Ucraina e oltre, s’allunga. Una risposta al ministro della Difesa

Il 21 dicembre, il Foglio ha pubblicato un’intervista al ministro della Difesa Guido Crosetto. Nel dibattito sulle crisi internazionali, il ministro ha affrontato i temi legati alla guerra russa in Ucraina, sottolineando la necessità di una soluzione politica attraverso la costruzione dei negoziati a partire dall’Organizzazione delle Nazioni Unite, quale mediatore per condurre a una via d’uscita dal conflitto. A prescindere dall’assenza di volontà negoziale da parte del presidente russo, Vladimir Putin, evidenziata nella sua recente conferenza stampa durata quattro ore, analizziamo il ruolo dell’Onu nella risoluzione dei conflitti nell’area ex sovietica, alla ricerca di casi di successo che possano infondere fiducia nell’efficacia della sua partecipazione nella gestione del conflitto russo-ucraino. 

Iniziamo con il conflitto irrisolto che dura da trent’anni tra Abkhazia (repubblica de facto), Georgia e Russia, esaminando il ruolo dell’Onu: tra il 1993 (quando è finita la fase calda del conflitto) e il 2008 (l’invasione russa della Georgia), il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato 32 risoluzioni riconoscendo l’Abkhazia come parte integrante della Georgia e sostenendo la sua integrità territoriale secondo i princìpi del diritto internazionale. Le Nazioni Unite hanno altresì richiesto il ritorno immediato dei circa 250 mila rifugiati georgiani espulsi dall’Abkhazia, oltre a determinare lo status finale dell’Abkhazia come un’autonomia o una struttura federativa all’interno dei confini georgiani. Le risoluzioni si riferiscono al ruolo della Russia (parte del conflitto) come peacekeeper e facilitatrice di una risoluzione del conflitto.  Negli anni Novanta, l’Onu schierava dei peacekeeper tra la Georgia e la repubblica de facto Abkhazia; il problema, tuttavia, era che il contingente dei peacekeeper era costituito principalmente da soldati russi, che erano quindi parte integrante del conflitto.

Nel 2008, la Russia invade la Georgia, occupa militarmente e in modo ufficiale sia l’Abkhazia sia l’Ossezia del sud e chiude la missione degli osservatori dell’Onu. 

Dopo il 2008, l’Onu ha continuato  a rilasciare periodicamente documenti sullo status degli sfollati interni e dei rifugiati dall’Abkhazia e sul diritto dei georgiani di ritornare a casa loro. Tuttavia, il conflitto rimane irrisolto, la Russia continua a occupare militarmente l’Abkhazia (e l’Ossezia del sud) e i rifugiati georgiani, dopo quasi trent’anni, sono ancora rifugiati. Se aggiungiamo agli insuccessi dell’Onu in Georgia l’irrilevanza delle sue risoluzioni sulla Transnistria o sul Karabakh – la prima rimane irrisolta da ormai trent’anni e la seconda ha vissuto una recente escalation durante la quale l’Azerbaigian è riuscito a riprendere militarmente tutti i territori, segnando così il fallimento della mediazione internazionale durata trent’anni – non dovrebbe essere difficile capire quale sia la credibilità delle Nazioni Unite e il suo ruolo nella risoluzione dei conflitti nello spazio ex sovietico.

Cercare le vie d’uscita dalle crisi è compito dei politici, ma ogni proposta in quella direzione deve basarsi sullo studio empirico, sull’esperienza fatta negli anni passati, sulla valutazione dell’impatto di questo e quell’altro attore nella risoluzione dei conflitti nello spazio ex sovietico, al fine di evitare di scommettere su soluzioni destinate al fallimento. Un altro punto da esaminare nell’intervista al ministro Crosetto riguarda la sua affermazione secondo cui su Hamas ci sarebbe la condanna della storia, mentre su “Putin è difficile da dire”. In questo contesto, diventa urgente (ancora una volta) richiamare in modo chiaro gli eventi accaduti sotto la guida del leader russo a partire dal 2024 e andando indietro nel tempo.

La decisione di Putin di invadere l’Ucraina fino a oggi ha provocato migliaia di vittime tra soldati e civili. Secondo i dati dell’Onu, si contano 10 mila morti – serve una precisazione: la cifra non comprende i civili uccisi nei territori attualmente occupati. L’Associated Press, concentrandosi soltanto su Mariupol, stima almeno 25 mila morti come risultato dei bombardamenti russi, mentre alcune fonti indicano un numero ben più alto, addirittura 100 mila morti.  Le uccisioni di civili sono state accompagnate da atti di tortura e dall’incarcerazione dei sopravvissuti. Numerose città e villaggi sono stati completamente distrutti. Sebbene sia impossibile riportare in vita i civili e i soldati morti durante il conflitto, sarà necessario un impegno finanziario di 500-600 miliardi di dollari per la ricostruzione dell’Ucraina.

L’invasione russa dell’Ucraina su larga scala è stata preceduta dall’annessione russa della Crimea nel 2014 e dalla guerra in Donbas, innescata dal Cremlino, e che ha causato oltre 14 mila vittime.  Segue la lista di crimini commessi dal regime russo sin dall’inizio dell’arrivo di Putin al potere: lo sterminio di 27 mila ceceni (alcune stime parlano di 50 mila), la guerra in Georgia (con i russi che hanno ucciso 228 civili e 170 soldati soltanto in cinque giorni, nell’agosto del 2008); per non parlare del teatro Dubrovka con 129 morti, dove, per catturare i terroristi ceceni che tenevano in ostaggio 850 persone, Putin ha autorizzato l’uso del gas proibito, causando molte morti per soffocamento; la guerra in Siria e la distruzione della città di Aleppo, nel 2016; la giornalista Anna Politkovskaja assassinata nell’ascensore di casa sua; il giornalista Pavel Klebnikov ucciso all’uscita della redazione di Forbes Mosca solo perché aveva pubblicato un articolo sugli oligarchi russi; nel 2003 fu ucciso il deputato liberale Sergei Yushenkov; nel 2006 l’ex agente del Kgb Alexander Litvinenko morì avvelenato con il polonio a Londra; nel 2009 furono uccisi a distanza di pochi mesi gli attivisti Stanislav Markelov e Natalia Estemirova; sempre nel 2009 morì in carcere l’avvocato Sergei Magnitsky, arrestato per aver indagato sui casi di corruzione. Seguirà l’assassinio del politico russo Boris Nemtsov davanti al Cremlino, nel 2015; l’avvelenamento del giornalista russo Vladimir Kara-Murza (oggi in carcere) due volte, nel 2015 e nel 2017 con il novichok (agente nervino della famiglia delle armi chimiche); il caso Skripal del 2018 in territorio britannico; l’avvelenamento con il novichok dell’oppositore russo Alexei Navalny e la sua successiva incarcerazione. E oggi, da due settimane, non si sa che fine abbia fatto Navalny, che è scomparso dal carcere. 

 

In tutto, più di trenta giornalisti sono stati assassinati nella Russia di Putin, migliaia di persone fra attivisti, politici, professori universitari, analisti, insomma rappresentanti della società civile russa, sono stati dichiarati agenti di uno stato straniero, e centinaia di organizzazioni per la difesa dei diritti umani sono state chiuse o dichiarate “indesiderabili”, fra cui l’associazione Memorial, la più importante organizzazione di denuncia dei crimini del regime sovietico; la Fondazione di Andrei Sakharov, colui che una volta disse: “Un paese che non rispetta i diritti dei propri cittadini, non rispetterà i diritti dei suoi vicini”; l’Helsinki Group di Mosca, la più antica organizzazione per la difesa dei diritti umani, fondata dai dissidenti russi nel 1976, e tante altre. Riflettendo su questa lista incompleta, chiedo: ministro Crosetto, quante altre vite umane perse, persone incarcerate, torturate o perseguitate, città distrutte dobbiamo ancora vedere prima che la storia esprima il suo giudizio definitivo su Putin?

Nona Mikhelidze, ricercatrice presso l’Istituto Affari Internazionali

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