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Facce nuove a Tel Aviv

Micol Flammini

Tra i graffiti del 7 ottobre si celebrano sopravvissuti e vittime, sui muri  la città esercita la memoria come un atto sacro

“Per noi il ricordo è un atto sacro, santifichiamo il presente ricordando il passato. Per noi ebrei l’essenza della fede è la memoria. Credere è ricordare”
Abraham Joshua Heschel

C’è un elemento in tutta Tel Aviv che fa capire più di ogni altro che questa città è fatta e pensata per una una socialità ridanciana e bonaria, per una vita comunitaria e chiacchierona in cui tutti sembrano conoscere tutti e se anche non ci si conosce sanno di essere tutti parte dello stesso progetto. Sono le panchine il simbolo di questa città affabilmente randagia, perché tutte hanno al centro un tavolino che serve a poggiare bicchieri, bottiglie di birre, piatti. Attorno alle panchine si chiacchiera e si discute, ci si chiama a voce alta, si prendono appuntamenti e anche se il bar davanti è aperto, la panchina con il suo tavolinetto è più allettante, perché poi si alza lo sguardo e si scorge la città che cambia. Sono spuntati nuovi volti sulle mura di Tel Aviv, i volti del 7 ottobre immortalati in graffiti, un tempo biasimati, adesso talmente apprezzati da essere diventati parte della storia. Su alcuni palazzi della città sono comparsi i personaggi che, nel giorno in cui Hamas ha attaccato i kibbutz che confinano con la Striscia di Gaza, hanno compiuto atti di eroismo, hanno salvato vite, hanno capito prima degli altri, si sono messi in pericolo per salvare Israele. E’ un cantiere e i disegni aumenteranno perché le storie non sono ancora state scoperte tutte, ma intanto colori sgargianti fanno a gara per riempire le mura grigie del quartiere di Kiryat Hamelacha, area industriale che si sta convertendo all’artigianato, guidati dalla mano di un gruppo di artisti chiamato Grafitiyul. Personaggi e colori, la storia qui si scrive in comune ed è un atto di fede. E’ Elinoy Kisslove che gestisce il progetto ambizioso nato dall’idea di mandare messaggi dall’alto, di dare emozioni positive, di pensare le mura di Tel Aviv come un sottocielo che deva abbracciare tutta la città.


Elinoy è piccola, bionda, due occhi grandi e volitivi. Come tutti in Israele ricorda con precisione quel sabato di festa e tragedia di settimane fa, ricorda l’effetto che fa una notizia in grado di paralizzare. Adesso raccoglie storie, idee e poi con il suo gruppo le trasforma in graffiti. Kiryat Hamelacha non è un granché, palazzi alti, poco armonici, grigi, un panorama sciatto che sarebbe da dimenticare se non fosse per questa nuova vita, con personaggi che corrono sui muri e si stagliano con una regalità che si addice ai supereroi o alle icone. I primi tre che compaiono, lanciati quasi in volo, sono tre uomini. La loro divisa ricorda quella di Superman ma ha i colori dell’esercito israeliano, ed è proprio da lì che vengono tutti e tre, sono stati tre ramatkal, tre capi di stato maggiore ormai in pensione, che quella mattina hanno ripreso le armi e sono corsi a sud, verso la Striscia. Noam Tibon è stato svegliato da un messaggio di suo figlio Amir, abitante del kibbutz di Nahal Oz. E’ salito in macchina assieme a sua moglie Gali, hanno oltrepassato due checkpoint controllati dagli israeliani e sono entrati nella zona dei combattimenti. Sono stati colpiti dai terroristi di Hamas, ma sono sopravvissuti, salvando vite lungo la strada. La corsa, la fuga, infine l’irruzione nei kibbutz sono parte della storia di altri due supereroi mortali, Yair Golan e Israel Ziv, anche loro con la stessa uniforme di Tibon, anche loro in corsa per salvare qualcuno, tutti e tre amareggiati per non aver fatto di più e furiosi per la sofferenza di Israele. Qui sono tutti amareggiati, furiosi, delusi. Nessuno è stanco, ognuno pensa che è soltanto l’inizio. Il 7 ottobre è pieno di ricordi, che si stanno trasformando in atti di fede. Israele non è un monolite, è come queste mura colorate e dinamiche, nasconde la sofferenza con il movimento, convinto di esistere ancora soltanto per una capacità di resistenza, insistenza e sacrificio che tutti respirano. “L’idea della sopportazione è molto israeliana”, dice Elinoy, “accomuna tutti”. Dal muro di un vicolo due uomini si baciano. Uno ha le insegne di Hamas, l’altro quelle dell’Isis, sotto una scritta a prova di ogni confusione mette in chiaro “Hamas=Isis”. Dietro ci sono le bandiere israeliane. “Abbiamo iniziato a disegnare ma non avevamo bene in mente cosa fare, una volta finito ci siamo detti: siamo riusciti a mettere insieme due cose che Hamas odia da impazzire, Israele e l’omosessualità”, Elinoy lo dice divertita e fiera, spiegando che l’idea di realizzare questo graffito in un vicolo, più nascosto rispetto agli altri, è stata una precauzione: “Immaginavamo che la polizia non avrebbe apprezzato due terroristi disegnati sul muro. Un tempo non apprezzava i graffiti in generale, ma adesso anche per gli agenti questi graffiti hanno un valore. A volte si fermano  a guardarci mentre lavoriamo, un giorno stavamo girando un video e ci hanno addirittura chiesto il permesso di passare. Sta cambiando tutto qui in Israele”. Se la società israeliana si è riscoperta più unita di quanto non pensasse di essere, è perché quel giorno tutti si sono svegliati con la stessa paura e con la stessa urgenza. E’ accaduto tutto di sabato, giorno in cui i religiosi non lavorano. Eppure la poliziotta Shifra Buchris, ebrea ortodossa abituata a onorare lo Shabbat in modo ligio, in qualche modo, senza telefono né televisione, è venuta a sapere la notizia, ha lasciato i suoi dieci figli, si è messa l’uniforme, ha chiamato gli agenti della sua squadra ed è andata verso la zona attaccata dai terroristi. Ha trovato ragazzi morti, ragazzi in fin di vita, ha salvato quante più persone ha potuto, ha combattuto e i suoi capelli rosa adesso sono uno dei simboli dell’eroismo di quel giorno. Quel sabato Shifra ha contravvenuto a tutte le regole religiose che era abituata a seguire da sempre, quel giorno non si è fermata neppure a rifletterci su, doveva andare da chi aveva bisogno di lei più dei suoi dieci figli. Non lontana, da un altro muro, la guarda con un sorriso pacato un’altra donna, trasformata in eroina, Inbal Liberman, “è una donna timidissima”, ci tiene a dire Elinoy, ma da quel muro sembra sicura, potente, invincibile. Ha una tutina attillata da Black Widow, anche il taglio di capelli è simile. Inbal è di Nir Am, vicino Sderot, il kibbutz abituato ai razzi di Hamas più di qualunque altro. Fa parte della Kitat Konanut, la squadra che in ogni kibbutz si occupa della sicurezza nell’attesa dell’intervento della polizia e dell'esercito. E’ formata da civili, non da militari, che hanno l’incarico di mantenere l’ordine, rispondere, e aprire l’arsenale di cui ogni kibbutz dispone, e che di solito è riempito con armi non abituate a sparare. Inbal aveva capito cosa sarebbe accaduto, ha distribuito le armi, ha attuato il piano difensivo e Nir Am, attaccato dopo gli altri, non è stato colto alla sprovvista: i suoi cittadini sono sopravvissuti tutti. Le mura di Tel Aviv omaggiano anche Joe Biden, l’eroe con le idee chiare, vestito con i panni di quello che tra i supereroi è forse il più idealista, Captain America. Il capo della Casa Bianca, però, oltre alla tutina, alla stella sul petto, ha uno scudo con la bandiera israeliana che lo trasforma in un fiero e indistruttibile Captain Israel. In questa galleria di ritratti è spuntata anche Rachel Edrin, diventata la nonna più famosa del paese. Il 7 ottobre ha ritrovato i terroristi nel suo salotto, ha provato paura, non è scappata, ha iniziato a cucinare per loro, tenendoli occupati fino all’arrivo dell’esercito. I terroristi tronfi, sazi e ammaliati, non si sono accorti del tempo che passava, non hanno pensato alla trappola della signora dai modi goffi, erano seduti e soddisfatti quando i soldati hanno fatto irruzione. Come si diventa eroi? Viene da chiedersi vedendo questi volti comuni prestati al mito. I biscotti di Rachel sono ormai letteratura, come i capelli di Shifra o il viaggio in macchina di Noam con sua moglie Gali che per superare il checkpoint sono passati per i campi, lungo una strada che portava alla morte. 


E’ ormai notte, quando Elinoy mostra il murale più grande di tutti, il disegno di chi non è sopravvissuto. I volti di quattro ragazzi giovanissimi ricoprono una parete lunga e come sfondo hanno dei cerotti, segno di un graffito realizzato in precedenza dall'artista israeliano Dede Bandaid, che ha fatto del cerotto la sua forma distintiva. Iniziò a disegnare dopo aver finito il servizio militare e quel simbolo significava che il trauma non sarebbe mai andato via, che a volte le ferite non riescono neppure a trasformarsi in cicatrici, sono lì per rimanere aperte. Sopportazione e sofferenza si sposano, qui in Israele, con l’idea che tutto può essere superato. Anche il 7 ottobre può essere superato, ma non dimenticato. I quattro giovani sono Amit Mann, che quel giorno uscì di casa pur sapendo dell’attacco, andò all’ambulatorio di Be’eri a curare i feriti fino a quando un terrorista non le ha sparato in testa. Vicino a lei c’è Aner Shapira, era al rave di Re’eim, quando sono iniziati i razzi si è nascosto in un migunit, un rifugio, assieme ad altri compagni. Poi sono arrivati i miliziani e vedendo il migunit, che è un cubo spesso in mezzo al nulla che serve a dare riparo per strada, lanciarono una granata al suo interno. E’ un atto per cui si erano preparati bene, molti israeliani sono morti in questo modo, in rifugi diventati trappole. Aner per otto volte ha ributtato la granata fuori, alla nona non ha fatto in tempo, ma il suo comportamento aveva convinto i terroristi che fosse l’unico a nascondersi lì e quando il suo corpo, durante l’esplosione, ha fatto da scudo agli altri dentro al rifugio, ha salvato tutti. Awed Dawarsha invece ha guidato l’ambulanza facendo avanti e indietro per caricare i feriti, fino a quando Hamas non gli ha sparato addosso. Vicino a lui c’è Ben Shimoni, ai primi segnali dell’attacco aveva preso la sua macchina, dato un passaggio ad alcune ragazze, era riuscito a mettersi in salvo, ma ha scelto di tornare per aiutare altre persone a fuggire, fino a quando non è stato colpito. Elinoy prende una bomboletta e scrive i nomi, poi mette la data: 7/10/2023. “Prima di disegnarli, ho chiesto ai parenti se fossero d’accordo. Lo erano. Non sono gli unici a essere morti per salvare altri, forse un giorno aggiungeremo volti, è una storia che stiamo ancora raccontando, ma non potremo metterli tutti, sono tanti, sono troppi”, dice Elinoy. 


Quando una persona muore abbiamo paura che venga dimenticata. L’oblio ci sembra l’offesa più grande che si possa aggiungere alla morte di qualcuno che amiamo. Custodiamo il suo ricordo facendo in modo che quante più persone sappiano, ne parlino, ricordino. Continuiamo a pensare ai compleanni come se il conto andasse avanti, assumiamo le abitudini di chi non c’è più per trattenerlo con noi, stringerlo, farlo vivere nella nostra giornata. Ne prendiamo la forma, pur di non farlo scivolare via. Non è tollerabile che allo sgarro della fine della vita si aggiunga quello della fine della memoria. Per questo a Kiryat Hamelacha i sopravvissuti sono separati dai morti, ai primi va il sollievo e la gratitudine, ai secondi va la memoria, un atto sacro.  

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.