Il destino della Striscia

Egitto e Giordania non vogliono responsabilità su Gaza e anche l'Anp vede i rischi

Rolla Scolari

Una forza internazionale regionale per il mantenimento della sicurezza una volta terminato il conflitto, e che consegni nel giro di diversi mesi il territorio a “un’ Autorità nazionale palestinese effettiva e rivitalizzata”. Nessuno è pronto a farsi carico della Striscia per il dopo Hamas

“Dobbiamo focalizzarci sul giorno dopo”, così ha detto pochi giorni fa il segretario di Stato americano Antony Blinken, che instancabilmente viaggia tra le capitali di un Levante inquieto per il suo futuro. Pensare al giorno dopo di Gaza nel mezzo di una guerra, dopo che chi governa la Striscia ha brutalmente massacrato 1.400 israeliani e rapito quasi 300 persone, e mentre l’operazione militare israeliana contro le strutture militari di Hamas coinvolge tra le sue vittime migliaia di civili, sembra oggi impossibile e prematuro. In sintesi, questa è la risposta che si è sentito dare il segretario di Stato americano nei colloqui con diplomatici di diverse nazioni arabe incontrati durante il fine settimana. Blinken cerca di tracciare i contorni di un piano su chi controllerà il piccolo territorio costiero palestinese una volta terminato il conflitto. Israele ha infatti dichiarato esplicitamente il suo obiettivo, dopo l’orrore compiuto da Hamas il 7 ottobre nei villaggi rurali del sud, a pochi chilometri dal confine con la Striscia. 

Lo ha spiegato Yoav Gallant, ministro della Difesa israeliano: distruggere militarmente il gruppo terroristico e annientare la sua capacità di governare Gaza. Una delle opzioni emerse in queste settimane sulla stampa internazionale, e che starebbe perseguendo in parte Washington, è quella di una forza internazionale regionale – quindi araba – presente a Gaza per il mantenimento della sicurezza una volta terminato il conflitto, e che consegni nel giro di diversi mesi il territorio a “un’ Autorità nazionale palestinese effettiva e rivitalizzata”, nelle parole dello stesso Blinken.

    

Di un’ipotesi simile ha parlato poche settimane fa l’ex primo ministro israeliano Ehud Barak, il premier del più credibile tentativo di arrivare a una pace permanente con i palestinesi, a Camp David nel 2000. Eppure, lo stesso Barak ha ammesso come il vicino Egitto non abbia mai mostrato interesse nella storia recente per un ruolo attivo e in presenza a Gaza. E oggi le azioni del governo del Cairo continuano a confermarlo: il valico di Rafah, unico punto di ingresso e uscita dalla Striscia in questo momento di guerra, resta quasi totalmente chiuso al passaggio di persone e le agenzie internazionali accusano sia Egitto sia Israele di non permettere il transito di un numero sufficiente di camion di aiuti. Il Cairo “non vede perché debba assumersi da solo la responsabilità di accogliere rifugiati in arrivo dalla Striscia di Gaza”, ha detto il suo ministro degli Esteri, Sameh Shoukry, rispondendo alle pressioni internazionali e di Israele affinché il paese accolga nel  Sinai gli sfollati palestinesi.


Anche la Giordania, che non ha prossimità territoriale con Gaza ma, nella persona del suo re Abdullah II, è custode dei luoghi sacri musulmani e cristiani di Gerusalemme e ospita da decenni una vastissima popolazione di rifugiati palestinesi, non cerca un ruolo sul campo e dichiara di non voler accogliere sfollati. “Non rispondiamo alle domande su che cosa accadrà dopo a Gaza perché nessuno di noi sa a che cosa assomiglierà Gaza dopo”, ha detto il ministro degli Esteri giordano Ayman Safadi. Difficile, inoltre, come ha ricordato il Wall Street Journal, che qualsiasi governo arabo si faccia coinvolgere con una presenza a Gaza al termine della guerra nel caso in cui l’esercito israeliano continui anche soltanto sporadicamente a portare a termine operazioni militari contro Hamas.

Nathan J. Brown del Carnegie Endowment for International Peace scrive che la domanda non dovrebbe essere chi governerà Gaza dopo ma se è possibile cancellare completamente Hamas dalla Striscia, considerando che si tratta non soltanto di un gruppo militare terroristico, ma di un movimento politico, sociale, che si è fatto partito-stato dal 2007, permeando l’amministrazione locale, la magistratura, il sistema educativo.


Accanto a questo, si sommano i dubbi internazionali sulle reali capacità dell’Autorità nazionale palestinese, istituzione indebolita che governa una Cisgiordania dove il poco carismatico e anziano presidente Abu Mazen non organizza elezioni dal 2006. Le perplessità sono interne alla stessa Anp: “Fare arrivare l’Autorità nazionale palestinese a Gaza a gestire gli affari di Gaza senza una soluzione politica per la Cisgiordania, come se l’Autorità nazionale palestinese arrivasse a bordo di un F-16 o di un carro armato israeliano? – si chiede il premier Mohammad Shtayyeh in un’intervista al Guardian – Non lo accetto, il nostro presidente non lo accetta. Nessuno di noi lo accetterà”.

Di più su questi argomenti: