EDITORIALI

Il complesso Caracciolo e Israele

Redazione

C’è una sottile soddisfazione nel vedere il “cane pazzo” che non morde più

Con il consueto sussiego, qualche sera fa a “Otto e mezzo” Lucio Caracciolo assisteva pensoso, senza obiettare verbo, al demenziale show giustificazionista di Hamas di Elena Basile, rianimandosi solo alla domanda di Gruber: Netanyahu pagherà un prezzo? “Netanyahu appena la guerra finirà dovrà trovarsi un’altra occupazione”, ha detto con un sorrisino il direttore di Limes. La complessità del resto è il pane della geopolitica, e Caracciolo – cui va riconosciuta una competenza che non tutte le meteore televisive del settore possono vantare – ne fa ampio sfoggio in tema di guerra di Putin contro l’Ucraina. Ma c’è complessità e complessità, verrebbe da dire. E up to a point.

 

Ieri, mentre il quotidiano con cui collabora, Repubblica, apriva con un drammatico titolo, “La strage dei bambini”, e il direttore Maurizio Molinari firmava un editoriale in cui è bandita ogni possibile ambiguità morale e anche politica, “Il pogrom jihadista contro la dignità degli esseri umani”, Caracciolo scriveva un raffinato, o più che altro circonvoluto, intervento dal titolo “I tormenti del cane pazzo”. Farsi temere come “un cane pazzo” era un’espressione di Moshe Dayan per spiegare la paura da incutere ai nemici. Ora quel “cane pazzo” Hamas non lo teme più e Israele rischia di trasformarsi nel cane da bastonare mentre affoga, per dirla con Mao. C’è ovviamente del vero, ma a colpire è una sorta di compiacimento con cui Caracciolo indica la strada di un’inevitabile sconfitta per lo stato ebraico. E per giunta non a opera del suo nemico ma dei suoi stessi errori: “La somma algebrica dei tre fattori stabilisce che solo Israele può distruggere Israele”, scrive. Comunque vada, dimostrerà che “il cane pazzo non morde più. Prima o poi il negoziato con Hamas, ovvero la sua legittimazione, diverrà inevitabile”. Questa visione lose-lose, di un Israele che è finito vittima di sé stesso sembra affascinare l’analista molto più di una riflessione sulle sue possibilità di sopravvivere. Ma che importa, “Netanyahu dovrà trovarsi un’altra occupazione”. È davvero tutto qui?

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